Le tecniche vitivinicole furono apprese dagli etruschi. Dopo la fine delle guerre puniche, la coltura della vite registrò un forte sviluppo tanto che Catone il Censore (234 – 149 a.C.) attribuisce maggiore importanza alla vite, ponendola addirittura prima dell’olivo. Numerosi erano i locali pubblici che vendevano vino (thermopolium) e la produzione fu talmente elevata da permettere una rilevante esportazione: il porto di Ostia divenne un vero e proprio emporio del vino. Conseguenza negativa fu la sottrazione di terre destinate ad altre colture la cui produzione fu inevitabilmente limitata.
Ampia la letteratura che ci testimonia il progresso tecnico vitivinicolo dei romani, arricchito dalle conoscenze degli altri popoli del Mediterraneo con cui vennero a contatto: Marco di Porcio Catone – De agricultura, di Marco Terenzio Varrone – Resrusticae – di Publio Virgilio Marone – Georgica – Lucio Moderato Columella – De re rustica.
Columella indicava, ad esempio, l’esistenza di 58 vitigni, di cui 12 da tavola; Plinio il Vecchio ne elencava 80 e riferiva che nel mondo ne esistevano almeno 190; dalla Geographica di Strabone e dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio emergono 50 diversi tipi di vini pregiati.

Erano prodotti anche vini “speciali”, profumati ed aromatizzati, per l’infusione di varie specie di piante e con l’aggiunta di particolari sostanze. Ad alcuni di questi erano attribuiti specifici effetti, quali indurre l’aborto, rendere feconde le donne o determinare l’impotenza negli uomini. Il vinum murratum veniva somministrato ai condannati a morte per annebbiare la loro coscienza prima dell’esecuzione.
E’ forse questa la “mistura di vino e fiele” (Mt 27, 34) o il “vino con mirra” (Mr 15, 23), o il “vino aspro” (Lc 23, 36) che venne offerto a Gesù nel suo supplizio? I resti di vasche per la pigiatura dell’uva, in muratura e monòliti, di considerevole capacità rinvenuti nei municipia di Arretium e di Cortona, fanno presumere l’esistenza di una vera e propria industria enologica. Varie le ricette che utilizzano il vino.
La crisi dell’impero (III-IV sec. d. C.) causò anche la decadenza della viticoltura, conseguenza delle sfavorevoli condizioni in cui venne a trovarsi l’agricoltura per l’affidamento del lavoro agli schiavi, la crisi monetaria, le lotte interne, le invasioni dei barbari, il più generale disordine politico e amministrativo. Le pesanti tasse imposte ai possessori di vigneti, spinsero quest’ultimi a sostituire la coltura della vite. Il fenomeno assunse dimensioni tali da spingere l’imperatore Teodosio (IV sec. d. C.) a fissare la pena di morte per chi – sacrilega falce – tagliava le viti.
Le aree nelle quali continuava la coltivazione della vite furono quelle vicine alle città e meglio collegate alle coste, dove più intensi e più facili erano gli scambi commerciali.
L’olio a Roma
Le origini dell’olio di oliva si confondono con quelle della civiltà del Mediterraneo. Sia la pianta che il suo frutto sono stati sempre rivestiti da un’aura di sacralità. Ogni religione ne parla, dalla mitologia greca al Corano fino al cristianesimo. In effetti l’olio d’oliva è un tale concentrato di ricchezza che agli uomini del terzo millennio avanti Cristo appariva di natura divina.
I Romani impararono a spremere l’olivo in età arcaica, usavano l’olio soprattutto per la cura della pelle come unguento, completato dall’aggiunta di profumi ricavati da erbe e fiori. Era considerato un bene prezioso e veniva utilizzato a scopo terapeutico: si preparavano unguenti per ferite, ustioni, disturbi di stomaco e avvelenamenti. I recipienti per l’olio erano diffusissimi, tanto che ne sono stati ritrovati numerosi e modellati in diverse forme e materiali come l’oro, l’argento, il vetro o il marmo. Il problema principale era, come per il vino, la conservazione: col tempo l’olio diventava rancido e si condensava. Si preferiva dunque conservare le olive e spremerne l’olio al momento dell’uso. I romani distinguevano diversi tipi di olio a seconda dello stato e della frantumazione delle olive: oleum acerbum, estratto da olive acerbe; strictum, ricavato dalle olive prossime alla maturazione; comune, fatto con olive mature.
C’era anche l’oleum cibarium, ricavato da olive guaste e bacate e pertanto destinato alla plebe e agli schiavi.