A cura di: Roberto Trizio
La battaglia di Tapso è uno degli ultimi scontri di Giulio Cesare contro i generali fedeli agli ideale di Pompeo Magno, che si svolse il 7 febbraio del 46 a.c. nell’odierna Tunisia.
Cesare aveva vinto lo scontro diretto con Pompeo a Farsalo, si era poi spostato in Egitto e poi nella penisola anatolica contro Farnace, per fare brevemente ritorno a Roma.
Ma gli ultimi seguaci pompeiani avevano radunato in poco tempo 10 legioni che si erano schierate nel nord Africa. Cesare dovette quindi immediatamente partire con i suoi esercito di fedelissimi per sconfiggere le resistenze contro il suo governo.
Arrivato sul luogo dello scontro, Cesare iniziò l’assedio della città di Tapso, utilizzando una serie di tecniche che aveva approfondito nel corso della campagna gallica.
Ma come sempre a Cesare serviva uno scontro diretto per chiudere la questione e per fortuna i generali avversari attaccarono Tapso da nord con l’intenzione di annientare i suoi legionari.
I generali nemici erano diversi e piuttosto temibili. Metello Scipione Nasica, un comandante di grande esperienza che aveva grande presa sugli uomini, Petreio, che Cesare aveva già affrontato in Spagna e che rappresentava uno degli irriducibili avversari, ma soprattutto Tito Labieno il suo ex braccio destro durante le campagne galliche che molto conosceva del metodo di combattimento di Cesare.
La battaglia di Tapso. 7 febbraio del 46 a.c: Lo schieramento iniziale
L’esercito di Cesare fu schierato in maniera abbastanza classica con la fanteria al centro e la cavalleria ai lati. Cesare, al solito, prese posto sul lato destro dell’esercito per guidare la parte più forte e per avere una visione completa del campo di battaglia.
Davanti ai cavalieri, Cesare posizionò anche dei manipoli di arcieri con lo scopo di neutralizzare la principale arma degli avversari: i 50 elefanti addestrati.
Dall’altro lato, Metello Scipione posizionò altrettanta fanteria centrale, altrettanta cavalleria ai lati ma soprattutto uno stuolo, sempre sulle ali, di pachidermi temibili e pronti a fare a pezzi gli avversari.
I dettagli dello scontro
La prima mossa partì proprio dall’esercito di Cesare, che fece avanzare i suoi Arcieri con lo scopo di colpire gli elefanti: un lancio impressionante di frecce, giavellotti e sassi colpì violentemente gli animali.
Fu inutile: i pachidermi avevano la pelle troppo spessa e le frecce rimbalzavano. Inoltre erano stati adeguatamente addestrati dall’esercito pompeiano a non imbizzarrirsi facilmente.
Il primo attacco non sortì l’effetto desiderato e gli arcieri cesariani dovettero tornare, sgomenti, nelle loro posizioni con un nulla di fatto. Alchè fu l’esercito guidato da Metello Scipione ad attaccare: gli elefanti dell’ala sinistra si scagliarono violentemente contro il centro dello schieramento Cesariano.
Ad assorbire tutta la potenza degli animali la quinta Legione Gallica, che resistette con straordinario coraggio: da quel momento il suo simbolo divenne quello dell’elefante, a imperitura memoria del valore dimostrato a Tapso.
Si trattava di un momento molto critico per Cesare: gli elefanti stavano mietendo decine di vittime e il morale stava cadendo velocemente.
Ma come al solito, il Divo Giulio si salvò grazie ad un’idea formidabile, come le tante che avevano dato una svolta alla sua vita. Quella di far suonare centinaia di trombe con estrema forza, la forza della disperazione, in grado di spaventare gli elefanti.
Gli animali girarono su loro stessi, impazzirono e calpestarono la stessa cavalleria pompeiana. Fu a questo punto che l’esercito di Cesare iniziò a guadagnare terreno: e la stessa ala destra, guidata da lui in persona, compì un giro particolarmente largo per attaccare direttamente l’accampamento.
Questa fu una mirabile manovra psicologica, perché significò togliere ogni possibilità di fuga e di salvezza all’avversario. I nemici iniziarono a disperare e mano mano a disertare.
In particolare Bocco I, re di Mauritania e valido alleato, abbandonò il campo di battaglia non appena seppe che la sua capitale era stata attaccata da un pretendente al suo trono.
Lo stesso Metello Scipione capì che la partita era persa e iniziò ad allontanarsi, lasciando l’esercito nelle mani del generale Petreio.
La strage finale
La battaglia era vinta, ma sul campo rimanevano diecimila soldati romani. La fazione pompeiana dichiarò la resa, eppure questa volta i soldati di Cesare non ebbero pietà e li massacrarono fino all’ultimo.
Si tratta di un’azione molto diversa dalla solita politica di Cesare, che riservava la sua classica clemenza ai nemici in segno di distensione.
Alcuni storici ipotizzano che i soldati disobbedirono agli ordini di Cesare presi dalla rabbia e dalla cattiveria, mentre altri pensano che Cesare, ormai avanti con l’età, ebbe uno dei suoi attacchi epilettici che gli impedì di seguire la battaglia fino all’ultimo.
Fu così che 10.000 fratelli romani uccisero altri 10.000 fratelli romani, in quella tragedia che fu la guerra civile.
La battaglia di Tapso, fu un’altra straordinaria vittoria di Cesare che gli consegnò la netta superiorità rispetto al nemico pompeiano.
Dopo la sconfitta, alcuni suoi storici nemici come Catone Uticense e Giuba, scelsero il suicidio.
Nell’ultima battaglia, quella di Munda, i soldati e i generali pompeiani opposero un’ultima strenua resistenza a Cesare, che stavolta dovette combattere mettendo a rischio la sua stessa vita.
Ma questa è un’altra battaglia