A cura di: Roberto Trizio
La battaglia del Vesuvio è un conflitto che rimbomba negli albori della repubblica romana, dove i soldati dell’Urbe si scontrarono contro i vicini di casa, i latini, per il predominio del territorio, dopo essere stati alleati.
Un avversario temibile, perchè predisposto e avvezzo alle stesse tecniche, tattiche e strategie con cui si aveva sempre combattuto, fianco a fianco, plasmate nel corso degli anni contro nemici comuni.
Questo fa della battaglia del Vesuvio un momento importante, seppur meno divulgato dagli addetti ai lavori, della millenaria storia romana. Uno scontro da conoscere, dove si mescolano elementi di religione, superstizione e antichi modi di fare la guerra: il tutto reso epico e leggendario dal sacrificio sul campo del console Decio Mure, che si immola per la vittoria di Roma.
Antefatto: Romani contro Latini
I romani e i latini erano stati alleati: insieme avevano condiviso tecniche di combattimento e strategie, soprattutto per contrastare il nemico rappresentato dagli irriducibili guerrieri sanniti, il cui regno corrispondeva all’attuale Molise.
Erano abitanti dei popoli appenninici che nella prima guerra sannitica avevano messo a durissima prova i romani e i latini, sconfitti solo grazie ad importanti riforme e aggiornamenti dell’esercito.
Ma come in un gioco delle parti, i romani, dopo il conflitto, chiesero agli alleati latini di interrompere ogni ostilità, valutando cessato il pericolo e non volendo dare adito ad ulteriori scontri.
Il rifiuto dei latini fu il primo vero motivo di contrasto. Ma non il principale. Non si trattava semplicemente di una diversa valutazione dello stato della guerra: alla base vi era un risentimento sociale, la rivendicazione dei propri diritti e l’opposizione ad una disparità di trattamento che i latini subivano nel senato di Roma.
Un radicato malcontento che non poteva durare a lungo, e che, in popolazioni fiere e bellicose come quelle del Lazio, si traduceva automaticamente in battaglia. Che non tardò ad arrivare.
Il Giuramento di Decio Mure e la disposizione iniziale
Stiamo parlando di una Roma dura e pura, intrisa di religione e di pratiche sacerdotali, che erano la norma prima di un grande conflitto.
Gli arùspici, sacerdoti che interpretavano il futuro analizzando il fegato degli animali, furono chiari: Manlio Torquato Imperioso, console e generale, avrebbe avuto fortuna e vittoria ovunque si fosse recato, qualsiasi parte dell’esercito avesse guidato.
Un presagio straordinario, fondamentale per l’organizzazione dello scontro, al quale fece seguito il giuramento dell’altro console destinato a guidare i romani: Decio Mure.
Se fosse stato necessario, Mure si sarebbe sacrificato, avrebbe speso la sua vita in favore del collega e dell’intero esercito. Determinati così a vincere, prima ancora che a sopravvivere, Manlio e Mure disposero i loro uomini sul terreno di battaglia, e rivolsero le ultime preghiere agli Dèi immortali.
La prima fila dell’esercito romano era composta da 15 manipoli di Hastati, giovani nel fiore dell’età, dotati di asta, con il compito di reggere il primo impatto con il nemico.
Un “cozzare” spaventoso, scudo contro scudo, che era affidato ai virgulti della società romana, stracolmi di quella forza e paura che sono difatti gli ingredienti fondamentali della violenza.
In seconda linea i “Principes“, soldati con qualche anno di esperienza, spade in pugno. Dovevano intervenire nel caso in cui gli Hastati non fossero bastati. Altri 15 manipoli ordinatamente disposti sul campo, anch’essi desiderosi di intervenire per la vittoria.
In terza fila, l’ultima del classico schieramento romano, una unità di Triarii. I più forti, gli esperti, i veterani. Quelli che erano sopravvissuti a più battaglie, che da soli potevano decidere l’intero andamento della giornata. L’ultima carta, quella più prestigiosa, da calare nel mezzo della partita.
Alla loro sinistra, una antica formazione, quella dei Rorarii. Erano soldati malamente equipaggiati, con arco e giavellotti, il cui scopo era fare “massa”, riempire gli spazi che si creavano spontaneamente tra i manipoli.
Alla destra dei Triarii, gli Accensi: ancora più leggeri, dotati probabilmente solo di fionda. Dei gregari, pronti ad intervenire al fianco di coloro che decidevano la partita.
I loro avversari erano temibili. Per un motivo semplice: stessa disposizione, stesso schieramento e conoscenze. Capacità comuni e simile pensiero tattico. Una sorta di specchio, composto da ex alleati ora diventati i peggiori nemici.
La battaglia del Vesuvio
Le due formazioni si avvicinarono e si urtarono con una forza che possiamo solo immaginare. Gli Hastati da una parte e dall’altra devono essersi scannati, ordinatamente, senza alcuna pietà, consci dell’importanza della battaglia, e del futuro che sarebbe toccato rispettivamente ai vincitori e agli sconfitti.
Il clamore durò per diverso tempo, quando i latini, fisicamente più prestanti e resistenti, iniziarono ad avere la meglio, e a far arretrare le migliaia di gambe degli Hastati romani. I principes li avranno visti sicuramente, preoccupati, avvicinarsi verso di loro, sempre più schiacciati e compressi dalla furia avversaria.
Il protocollo romano funzionò correttamente: gli Hastati si ritirarono dietro ai Principes che presero il loro posto, freschi, per il combattimento. Probabilmente anche i latini fecero lo stesso, in un cambio programmato che faceva largamente parte della cultura militare del tempo.
Fu qui che Decio Mure, vedendo i suoi stanchi e soprattutto demotivati, si ricordò del sofferto giuramento e decise di consegnare, come promesso, la sua esistenza alla Storia.
Si avvicinò ai sacerdoti, indossò la toga bianca, e pronunciò con fermezza le parole riportate fedelmente da Tito Livio
«Giano, Giove, padre Marte, Quirino, Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi Indigeti, dèi nelle cui mani ci troviamo noi e i nostri nemici, dèi Mani, io vi invoco, vi imploro e vi chiedo umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano e dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così io agli dèi Mani e alla Terra, per la repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito, per le legioni e per le truppe ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliarie del nemico insieme con me stesso.»
Decio Mure
Salì a cavallo e si lanciò furioso verso gli avversari. A loro deve essergli sembrato un Dio, qualcuno dotato di potere sovrannaturale, che stupì e lasciò certamente sgomenti i latini, uomini ancora trogloditi, la cui cultura era intrisa di superstizione e per cui i segnali della terra e del cielo erano messaggi importanti.
Si racconta che fece gran strage, fino a che, circondato da ogni parte, venne sepolto da un nugolo di frecce, che lo consegnarono eternamente alla storia di Roma.
La morte, sul campo di battaglia, può avere molti significati: quella di Decio Mure pungolò nel vivo l’onore dei soldati romani, e soprattutto quello di Manlio, che ordinò un nuovo attacco e sentì scorrere rinnovato vigore nel fendenti dei suoi.
Ma non si vive, e si vince, di soli esempi. A Manlio toccava una decisione tattica importante: per questo fece avanzare dalla terza linea i Rorarii e gli Accensi, con l’obiettivo di dare un contributo importante alla prima linea che combatteva contro l’inferno.
Il generale latino, Numisio, interpretò questa mossa come l’entrata in gioco di “tutta” la terza fila romana, anche quella dei triarii, e diede ai suoi lo stesso identico ordine, per controbilanciare.
La battaglia fu decisa in quel momento.
Numisio aveva capito malamente, e Manlio aveva invece lasciato in riserva i suoi triarii, accovacciati sulla gamba destra, come da regola. Dopo ulteriori scontri, quando i latini avevano profuso tutto l’impegno e la forza di cui erano capaci, i romani si ritrovarono con il nerbo dell’esercito ancora fresco e pronto ad intervenire sull’avversario ormai a corto di risorse.
Entra giustamente nelle cronache, l’accorato appello di Manlio, quando si rivolge ai Triarii: gli ultimi uomini a disposizione.
«Ora alzatevi e affrontate freschi come siete il nemico sfinito, ricordandovi della patria, dei genitori, di mogli e figli, e del console caduto per la vostra vittoria»
Manlio Imperioso ai Triarii prima della carica
L’entrata in gioco dei triarii romani costituì una iniezione irresistibile di violenza contro i latini, che vennero decimati come mosche. Solo un quarto del loro esercito sopravvisse.
L’epilogo
Molti si rifugiarono a Minturno, una cittadina vicina al luogo dello scontro.
Altri scapparono nell’accampamento, ottenendo solo di rimandare di pochi minuti la morte: inseguiti e stanati dai romani, vennero fatti a pezzi, vicino alle loro tende.
A poche ore dalla vittoria, l’esercito romano contò i morti e i feriti, e si rese conto di avere ottenuto un successo fondamentale per il predominio del Lazio.
I soldati andarono a cercare il corpo di Decio Mure, rinvenendolo orribilmente crivellato di frecce, sotto uno strato di cadaveri e di caduti.
Gli furono tributati i massimi onori militari. Infine, la storiografia romana si incaricò di aggiungere Decio Mure all’elenco dei nomi che i soldati avrebbero ricordato nelle epoche che sarebbero venute.