All’interno del panorama artistico dell’Umanesimo di metà Quattrocento e alle soglie del Rinascimento, è possibile trovare il celeberrimo dipinto Cristo morto di Andrea Mantegna, oggi custodito all’interno della Pinacoteca di Brera.
Vita di Andrea Mantegna
Andrea Mantegna nacque nel 1431 a Isola di Carturo (oggi rinominata in suo onore Isola Mantegna), un borgo a poca distanza da Padova. Il padre Biagio, un modesto falegname, lo mandò ad appena dieci anni a bottega da Francesco Squarcione, il quale adottò il ragazzo come espediente per avere manodopera a basso costo. Squarcione era noto per essere un appassionato di reperti antichi greci e romani, che all’epoca venivano generalmente collezionati dagli antiquari fuori dal proprio contesto, e insegnò ai propri allievi a copiare statue e dipinti antichi. Nel frattempo, il giovane riuscì ad accedere a una formazione classica. Dopo essersi liberato del padre adottivo, contro il quale intentò anche una causa, Andrea Mantegna cominciò appena diciassettenne a ricevere le prime commissioni a Ferrara, Verona e infine Mantova. Sposò Nicolosia, figlia del pittore Jacopo Bellini e sorella di Giovanni e Gentile. Il dipinto Cristo morto, indubbiamente il più famoso della sua produzione, venne probabilmente realizzato negli anni ’70 del Quattrocento. Dopo un periodo trascorso a Roma, tornò a Mantova e infine dipinse a Magenta, prima di spegnersi nel 1506.
Il Cristo morto
Il dipinto Cristo morto, noto anche come Lamento sul Cristo morto oppure Cristo morto e tre dolenti, raffigura il Messia disteso sulla pietra dell’unzione, parzialmente coperto da un lenzuolo, mentre alla sua sinistra tre figure piangono; sul lato destro, in alto, compare un vasetto di unguento. L’ambientazione in una stanza, posta fortemente in ombra, è appena accennata.

Il Cristo morto di Mantegna
La storia del quadro è misteriosa, poiché non sono noti né la data di realizzazione (gli studiosi in maggioranza propendono per gli anni 1475-1478, a ridosso della decorazione della Camera degli sposi del castello di Mantova per l’utilizzo similare della prospettiva, ma c’è chi ha proposto una datazione più tarda, ai primi del Cinquecento), né se il dipinto fosse uno solo o due molto simili: nel Seicento erano infatti noti ben due quadri con lo stesso soggetto, di cui poi si persero le tracce. In ogni caso, l’opera era stata ritrovata nello studio del Mantegna alla sua morte, per cui si ipotizza che fosse destinata alla sua devozione privata oppure che fosse stata realizzata per la cappella di famiglia.
Il soggetto rappresentato è assolutamente tradizionale. Dipingere il lasso di tempo tra la morte di Cristo del Venerdì Santo e la sua resurrezione della Domenica di Pasqua aveva, infatti, la funzione di evidenziare il valore per la fede cristiana del Sabato, durante il quale il Figlio di Dio, morto corporalmente e disceso agli inferi, avrebbe combattuto vittoriosamente contro Satana e aperto le porte del paradiso ai giusti morti prima di lui. In passato numerosi pittori, tra cui Giotto, avevano dipinto sullo stesso tema iconografico.
Andrea Mantegna realizza, rispetto alla tradizione, due innovazioni: la prima è la pittura su tela, ancora poco usata all’epoca, e la seconda, impressionante, è lo scorcio prospettico: i piedi di Gesù, rigidi per la morte, sono infatti proiettati verso chi guarda, creando un forte impatto emotivo, mentre le linee di fuga prospettiche costringono l’occhio ad andare verso il centro del quadro, generando l’impressione che il corpo si sposti insieme allo spettatore. Nessuno aveva mai sperimentato prima un tale utilizzo della prospettiva, che Mantegna aveva già avuto modo di utilizzare per decorare la Camera degli sposi; tuttavia esso è volutamente imperfetto. Se si fossero applicate rigorosamente le leggi della prospettiva, infatti, i piedi di Cristo sarebbero dovuti essere di dimensioni maggiori, ma ciò avrebbe creato un effetto che al pittore dev’essere sembrato “grottesco”, così come per le gambe, che appaiono tozze e schiacciate. Il torace, invece, appare particolarmente ampio e le braccia eccessivamente lunghe, mentre la testa è più grande che se fosse stata utilizzata una prospettiva “perfetta”. Le ferite dei chiodi su mani e piedi e della lancia sul costato sono ben evidenti, realisticamente presentati come squarci sia nella pelle che nella carne sottostante. Un dettaglio interessante è che il pittore ha scelto di presentare i genitali di Cristo proprio al centro del quadro, il che lascia aperte diverse interpretazioni. La testa e il collo, lievemente in penombra, appaiono staccati dal corpo: c’è chi ha ipotizzato che volesse essere una rappresentazione del diofisismo di Cristo, vale a dire la duplice natura (umana e divina) di Gesù. La formazione classica e umanistica di Mantegna è evidente nell’atteggiamento composto della figura, dipinta con la composta gravità degli eroi greci e latini e ben lontana dalla sensibilità dei dipinti posteriori sullo stesso soggetto, come per esempio quelli che verranno realizzati da Annibale Carracci (fine Cinquecento) e Orazio Borgianni (inizio Seicento).
Impressionante è anche l’utilizzo che fa il pittore della luce, poiché, provenendo da destra, essa crea un forte contrasto tra le parti illuminate e le parti in ombra, evidenziando la muscolatura di Cristo e le sue ferite e consentendo allo spettatore di scorgere le tre figure piangenti, che sono state identificate come l’apostolo Giovanni, la vergine Maria e la Maddalena; è degna di nota la realizzazione estremamente curata e realistica delle lacrime che scorrono sui tre volti. Ancor più straordinari sono, però, i rilievi del lenzuolo che copre la parte inferiore del cadavere, che creano un effetto plastico di “panneggio bagnato” avvolgente ma allo stesso tempo rigido, tali da dare l’impressione che l’artista abbia “scolpito con la pittura”.
Il quadro alla Pinacoteca di Brera
I primi dati sicuri riguardanti il quadro risalgono al 1806: a tale data, infatti, risale la lettera che il segretario dell’Accademia di Brera, Giuseppe Bossi, inviò allo scultore Antonio Canova per chiedergli di mediare per l’acquisto del quadro. Dopo diversi anni, il dipinto arrivò effettivamente alla pinacoteca dell’Accademia. Disposto per molto tempo all’interno della sezione dedicata alla pittura veneta e scelto dal pubblico del museo come uno dei dipinti più amati, nel 2013 il quadro venne fatto spostare dall’allora direttrice della Pinacoteca, Sandrina Bandera, che voleva metterlo in evidenza con l’ausilio del regista Ermanno Olmi; tale allestimento, che isolava il quadro, lo metteva in penombra e lo collocava a un’altezza di soli 67 cm di altezza, fu molto criticato. Il nuovo direttore della pinacoteca, James Bradburne, nel 2015 lo fece reinserire nella sua collocazione cronologica, ma ponendolo a metà del corridoio, come se fosse una porta che separa l’Umanesimo del Quattrocento dal Rinascimento del Cinquecento.