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  • Da Monet a Bacon – Un museo nato da un sogno – Catalogo
Redazione
lunedì, 04 Febbraio 2019 / Pubblicato il Cataloghi

Da Monet a Bacon – Un museo nato da un sogno – Catalogo

Johannesburg è  una città giovane e dinamica che, a dispetto del suo difficile passato segnato da violenti conflitti razziali, guarda con fiducia al futuro. Fondata nel 1886, in seguito alla scoperta di giacimenti d’oro e diamanti, essa ha conosciuto subito una forte immigrazione dall’Europa, soprattutto dalla Gran Bretagna, che ne ha profondamente caratterizzato il tessuto sociale ed economico.

Nonostante sia la più prosperosa e popolosa metropoli del Sudafrica. Johannesburg non è certo una meta frequentata dai grandi flussi del turismo culturale: la sua realtà museale e la sua scena artistica, anzi, sono ben poco note al pubblico del vecchio continente, che ancora fatica a considerare l’identità contemporanea delle città africane, preferendo continuare a sognare l’Africa dei tramonti e dei safari. Se le suggestioni da cartolina dei grandi spazi naturali del continente continueranno, legittimamente e comprensibilmente, a occupare un ruolo da protagonista nell’immaginario collettivo  del viaggiatore europeo, gli incontri con realtà inaspettate, quali la Johannesburg Art Gallery, sapranno nel contempo sorprendere i visitatori più attenti, mostrando loro un aspetto meno cosueto di un territorio che offre anche realtà urbane attive e vivaci, capaci di dialogare a testa alta con gli ambienti artistici della vecchia Europa.

Era forse proprio questo che Dorothea Sarah Florence Alexandra Ortlepp Phillips, meglio nota come Lady Florence Phillips, intendeva fare quando decise di dotare Johannesburg di un museo:  trasformarla da centro minerario, cresciuto intorno alla ricchezza dei suoi giacimenti, a città (una città improntata, peraltro, sui modelli delle capitali europee).

Lady Phillips ne era certa: un museo non è solo uno spazio nel quale raccogliere opere d’arte ed esporle, è anche un luogo prezioso per la società civile,  dove fare e promuovere cultura, e un riferimento per coloro che non sono appassionati di arte. Spinta dai suoi nobili ideali, l’affascinante Florence vedeva la nascita di una galleria pubblica come un’opportunità di crescita culturale per tutta la popolazione, oltre che un fattore di prestigio per l’alta società locale. Florence era nata il 14 giugno del 1863 a Cape Town. Suo marito, Sir Lionel Phillips, era un magnate dell’industria mineraria. Tresferitasi a Johannesburg nel 1889, si mette ben presto di impegno per realizzare il suo sogno; convince alcuni industriali – Otto Breit, Sigismund Neumann, Abe Bailey, Friedrich Eckstein, Solly Joel, Julius Wernher- ad aiutarla con finanziamenti e donazioni, conduce trattative con il consiglio comunale per far approvare il progetto e trovare una sede al museo, acquista lei stessa alcuni dipinti. I suoi gusti non sono molto moderni: predilige l’opera di artisti inglesi e francesi del XVIII secolo, possiede un Constable, ma le sue preferenze cadono su Gainsborough, Reynolds, Romney, i maestri del Settecento britannico. Nel nucleo della sua prima donazione, l’unico artista francese del XIX secolo è Rodin. E’ l’incontro con Sir Hugh  Percy Lane a cambiare il suo punto di vista, facendole scoprire la scena artistica di fine secolo, in particolare quella impressionista.

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Esperto d’arte e mercante anglo-irlandese, Lane è il secondo protagonista del nostro racconto. Appassionato mecenate, seleziona e acquista opere per la Municipal Gallery of Modern Art di Dublino (oggi Dublin City Gallery The Hugh Lane). A differenza dell’amica Lady Phillips, conosciuta a Londra nel 1909, Lane ha gusti ben più aggiornati e un notevole intuito: la sua passione per la scena francese della metà dell’Ottocento lo porta a diventare uno dei più strenui difensori dell’impressionismo. Sono di sua proprietà alcuni tra i capolavori più noti e amati di quel movimento, ad esempio Gli ombrelli di Renoir, oggi alla National Gallery di Londra.

Lane spinge Lady Phillips a superare il confine del XVIII secolo, facendole acquistare alcuni lavori più recenti, come quelli di Philip Wilson Steer, visto assieme durante una mostra di Goupil. Per trovare i fondi per comprare i tre dipinti dell’allora molto noto paesaggista inglese seguace dell’impressionismo, Florence vende un diamante azzurro che le aveva regalato il marito. Seguono poi altre importanti acquisizioni sul versante dell’impressionismo, che precedono le scelte dei musei britannici, ancora poco inclini ad apprezzare la pittura dell’Ottocento francese, anche a causa  dello storico antagonismo culturale tra Londra e Parigi. Grande è l’interesse suscitato dall’esposizione londinese del nucleo di arte francese destinato al museo sudafricano. La collezione di Johannesburg, così, finisce con l’anticipare(e forse in qualche modo condizionare) le tendenze museali che negli anni seguenti caratterizzeranno anche il territorio britannico.

Se notevole è il ruolo di Lane nella diffusione del gusto impressionista, non si può dire altrettanto per la scena più strettamente contemporanea: egli, infatti, non sembra sapersi spingere oltre l’ottava decade dell’Ottocento, ignorando, o comunque non sostenendo né apprezzando, i linguaggi più attuali. Nel 1909 in Europa già soffiavano i venti delle avanguardie: Picasso aveva dipinto due anni prima Les Demoiselles d’Avignon e si stava accingendo con Braque alle prime sperimentazioni cubiste, Matisse aveva già da tempo esposto con i fauves, Marinetti pubblicava proprio in quell’anno il suo Manifesto del Futurismo e la ricerca di  Van Gogh, Gauguin, Cezanne e Seurat era ormai entrata nella letteratura artistica e sentita come modello dalle nuove generazioni. Eppure, la più recente delle opere francesi presenti nella collezione continuava a essere un paesaggio di Monet del 1873. Bisognerà attendere ancora qualche anno perchè questo limite venga superato.

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Nel 1910, ad arricchire ulteriormente il già prezioso nucleo iniziale, arriva la donazione di Otto Beit; il catalogo della collezione vanta già 127 opere, con dipinti, sculture, incisioni, acquerelli e disegni delle principali scuole europee. Il museo è però ancora ospitato in una sede provvisoria, la South African School Mines and Technology, in Eloff Street; quella definitiva sarà pronta solo anni dopo, nel 1915, costruita, a partire dal 1911, su progetto dell’architetto inglese Sir Edwin Lutyens, con la supervisione ai lavori del sudafricano Robert Howden.
Mentre in Europa esplode il primo grande conflitto mondiale, dunque, a Johannesburg apre i battenti la prestigiosa Art Gallery tanto desiderata da Florence Phillips. Nel frattempo l’intraprendente Lady ha commissionato a Rudolf Marloth un monumentale lavoro in sei volumi dedicato alla flora del Sudafrica, ha dato alle stampe un libro, A Friendly Germany. Why Not?, nel quale invita Gran Bretagna e Germania a unirsi  per difendersi dai pericoli provenienti da Asia e Africa, e si è prodigata per la fondazione di una facoltà di Architettura all’Università del Witwatersrand. Nei suoi soggiorni londinesi, Florence ha avuto probabilmente modo di conoscere l’attività di musei didattici e divulgativi per vocazione, come il Victoria and Albert Museum, da sempre attento alla relazione tra arte, industria e società. In Inghilterra, del resto, l’idea che un’istituzione museale potesse avere interessi sociali ed educativi, soprattutto nelle periferie, era assai diffusa e già dalla fine del XIX secolo numerose sono le gallerie, sia in città sia in provincia, che attuano programmi e iniziative tesi al miglioramento della condizione di vita della gente comune, anche delle classi meno agiate. Il nobile ideale di Lady Phillips era proprio questo: il fine del museo che stava donando a Johannesburg era innanzitutto didattico, educativo, sociale, Florence Phillips, tra l’altro, si occupa anche di questioni  importanti quanto poco discusse a quei tempi, come i problemi legati all’immigrazione e la sopravvivenza delle tradizioni locali in Sudafrica, un tema, questo, per cui ha sempre dimostrato una grande sensibilità, collezionando mobili e manufatti africani.

Quest’ultimo punto, però, merita una riflessione più attenta. Lady Phillips era nata a Cape Town ma aveva trascorso la maggior parte della propria vita in Inghilterra, dove aveva seguito il marito, forzosamente allontanatosi dal Sudafrica a seguito del suo coinvolgimento nel cosiddetto “Jameson Raid”, per cui fu processato e condannato a morte, ottenendo poi la grazia dopo sei mesi di reclusione. Dalla Gran Bretagna Florence continua a occuparsi con passione delle sorti della vita culturale e sociale del proprio paese di origine, con un occhio di riguardo per le tradizioni locali, sebbene nel museo da lei fondato e promosso sono a lungo mancati artisti sudafricani. Nel primo catalogo della collezione è compreso solo un artista locale, lo scultore Anton van Wouw, di origini olandesi ma residente a Pretoria fin da giovane. Le sue opere, sebbene spesso ritraggano figure dai tratti africani, rispondono tuttavia a stilemi tipicamente europei, difficilmente ascrivibili al gusto della tradizione dei nativi.

La presenza di artisti locali, in particolare di black artists, è del resto un’annosa questione per il museo. Negli anni della sua fondazione, era opinione diffusa che il Sudafrica, e più in generale l’Africa meridionale, non avesse ancora dato i natali a un artista degno di nota: un pregiudizio, questo, che si rivelerà ben difficile da sradicare. La relazione tra società civile locale e museo, d’altronde, si è costruita nei decenni, con una certa fatica. Come scrive Jillian Carman in un saggio del 1988 (Acquisition policy of the Johannesburg Art Gallery with Regard to the South African Collection, 1909-1987, in “South Africa Journal Culture and Art History”, vol. 2, n. 3, 1988), “in origine la comunità  non aveva davvero nulla a che fare con la Art Gallery. L’idea di un museo d’arte  non nasceva dalla comunità stessa, ma solo dalle sue classi più alte”. Il consigliere di Lady Phillips, Hugh Lane,

era estraneo alla città delle miniere e aveva visitato Johannesburg solo nel 1910, quando aveva portato le opere che aveva acquisito usando principalmente i finanziamenti dei Phillips e di altri magnati del Rand.

La fondazione della Johannesburg Art Gallery si può dire davvero democratica solo nel senso in cui i musei americani usano questo termine: non era una collezione privata visitabile solo da un’elite come in origine erano invece molti musei europei. Era stata fondata per la comunità e le opere erano state acquistate con fondi donati specificamente a tale scopo.

Anche nei propositi espressi in occasione della fondazione del museo, Lady Phillips sottolinea questa finalità:

Noi possiamo sperare che in futuro cresca una Scuola d’Arte Sudafricana e che lo studio dei capolavori che siamo riusciti ad assicurare a questa galleria aiuti anche a incentivare gli artisti locali. E quando la nostra Scuola Sudafricana comincerà a produrre lavori degni di apparire accanto ai migliori esempi provenienti dagli altri paesi, ci auguriamo che il Museo sarà in grado di acquistare queste opere, non solo per incoraggiare i talenti nascenti ma anche per cominciare una grande collezione di Arte Sudafricana.

Parole alle quali, però, non seguiranno fatti immediati. Del resto non poteva andare altrimenti, dal momento che a dirigere il museo sono state per lungo tempo personalità residenti in Inghilterra, che decidevano da lontano le sorti della Art Gallery, con un occhio e un gusto evidentemente eurocentrici.

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Dopo una serie di timidi approcci alla questione, spesso sollecitati da articoli di protesta che imputavano al museo una scarsa considerazione degli artisti sudafricani, cominciano a entrare nelle collezioni dell’Art Gallery oggetti e manufatti tradizionali dell’Africa Meridionale, come la collezione di poggiatesta anni venti e trenta, realizzati dagli VhaTsonga, dai VhaSona, dagli AmaSwati e dagli AmaZulu e appartenuti al reverendo Jacques, o i numerosi ornamenti tribali, abiti  tradizionali,oggetti rituali e d’uso quotidiano giunti per acquisizioni diverse. La situazione cambia sensibilmente solo negli ottanta del XX secolo, con la creazione, nel 1986, dell’Anglo American Johannesburg Centenary Trust; le acquisizioni cominciano allora a riguardare anche gli artisti sudafricani. Motivo del cambio di rotta e dell’abbandono della visione eurocentrica è anche la difficoltà di fare acquisti sul mercato internazionale a causa del valore della moneta sudafricana, in quegli anni sempre più debole. Ma non è solo una ragione economica a spingere il Trust dell’Art Gallery a indagare aree di creatività ignorate dagli altri musei: forte è anche la volontà di offrire finalmente al grande pubblico uno sguerdo approfondito sull’arte africana, nei suoi diversi livelli espressivi. Oggi il museo rappresenta anche un ampio archivio  e un’importante fonte di notizie sul patrimonio culturale dell’Africa meridionale, custodendo materiali preziosi a fini didattici e di recupero e studio e studio delle tradizioni locali. Parlare di arte africana, tuttavia, non significa solo recupero del folklore, ma anche indagine sulle realtà artistiche contemporanee e urbane.

L’arte sudafricana resta un tema assai poco conosciuto dalla storia dell’arte occidentale. Il museo ha anche il compito di colmare questa evidentissima lacuna.

Il primo lavoro di un artista di colore entrato nella Johannesburg Art Gallery è stato un dipinto di Gerard Sekoto, acquistato nel 1940. All’acquisizione non ne sono seguite altre per i successivi trentadue anni. Come spiega ancora Carman nel citato intervento:

i lavori dei black artists sono stati ignorati anche quando, negli anni cinquanta e sessanta, si è cominciato a costruire la collezione di arte sudafricana. Le ragioni sono complesse e non semplici da spiegare, ma è evidente che la prima causa era il clima sociopolitico del paese. L’artista di colore, anche se dipinge alla maniera europea, sembra dover comunque essere considerato diverso dai cosiddetti artisti europei contemporanei. Sentiamo questa attitudine nell’introduzione scritta da Geoffrey Long al catalogo Exhibition of contemporary South African paintings, drawings and sculptures, organizzata dalla South Africa Association of Arts for the Union Government nel 1948-1949, che è stata ospitata dalla Tate Gallery di Londra e poi in Olanda, Belgio, Francia, Canada, Stati Uniti e infine alla South African National Gallery di Cape Town. Il dipinto di Sekoto di proprietà delle Johannesburg National Gallery è stato esposto in mostra, Long scrive a questo proposito: “La posizione di Gerard Sekoto, un artista Bantu, è difficile da definire in quanto egli è lontanissimo, per razza e per ambiente, dagli artisti europei del paese, e questo è oggi il problema più importante del sub-continente”.

Proprio per colmare questa distanza e rendere possibile la conoscenza di un’area artistica ancora ben  poco nota, negli ultimi anni la Johannesburg Art Gallery ha lavorato molto sulla scena artistica sudafricana, anche nelle sue espressioni più contemporanee e urbane. Il museo, tra l’altro, oltre a ospitare gli archivi della Federated Union of Black Artists, è impegnato nello Joubert Park Public Art Project, un progetto pensato per migliorare la qualità della vita nell’area urbana attorno al parco in cui sorge la sede della Art Gallery – una zona un tempo periferica- , favorendo l’integrazione razziale. Come dichiara la presentazione del progetto, tra le sue finalità c’è quella di stimolare la collaborazione tra “gli artisti e i non-artisti, da campi diversi, guidati in uno spirito di curiosità condiviso  riguardo alle peculiarità e agli elementi specifici della città”, nell’ottica di un miglioramento socio-ambientale della zona e di una sensibilizzazione e un coinvolgimento di tutti i cittadini di Johannesburg: un nuovo passo nell’impegno del museo nei confronti del proprio territorio.

Per questo abbiamo voluto che la nostra mostra cominciasse con l’arte inglese dell’Ottocento e terminasse con una selezione di artisti sudafricani: un percorso che ben riflette la storia stessa del museo. Ripercorrere la genesi della formazione di una collezione è sempre interessente, quando poi si tratta del museo di una città come Johannesburg – dalla storia breve ma intensa, che l’immaginario comune non considera un centro artistico- lo è ancora di più.

La mostra di Monza, quindi, non è una semplice sequenza di opere firmate da alcuni tra i più grandi artisti degli ultimi due secoli, ma è anche l’occasione per ragionare sulle logiche e le ragioni, talvolta inaspettate, quasi casuali, della nascita, dell’evoluzione e del consolidamento di una collezione museale. Un racconto nel racconto, che accompagnerà i visitatori dell’esposizione, scorrendo parallelo al filo narrativo della storia dell’arte, ben rappresentato dalle opere presentate.

Non è un caso che si cominci con un omaggio a Lady Phillips, personaggio dalle eccezionali qualità letterarie, in grado di sollecitare suggestioni romanzesche: una donna fuori dal comune, affascinante e caparbia, visionaria nei progetti ma assai concreta nel metterli in atto. La sua figura è ricordata da uno splendido ritratto firmato da Antonio Mancini, che la ritrae a 46 anni. Il dipinto appartiene a una fase matura della ricerca dell’artista, che si era procurato ampia fama anche all’estero proprio grazie all’attività di quel Goupil presso il quale Florence Phillips aveva acquistato i primi lavori per il museo. Mancini, tra l’altro, aveva soggiornato a Londra tra il 1901 e il 1907, guadagnandosi una certa notorietà come ritrattista. L’italiano non è l’unico ad aver reso omaggio alla figura della Lady: la ritraggono, infatti, anche altri artisti, quali Giovanni Boldini (in uno splendido dipinto del 1903 oggi conservato alla Dublin City Gallery fondata da Hugh Lane) e l’inglese William Nicholson (nel 1910, in una tela oggi di collezione della stessa Johannesburg Art Gallery).

La prima sezione della mostra è dedicata alla scena inglese dell’Ottocento, molto presente nella collezione del museo non solo per il legame strettissimo della società che ha dato vita alla Art Gallery con gli ambienti brittanici, ma anche perchè alcune donazioni – su tutte quella di Sir Sigismund Neumann del 1912 – hanno ultriormente arricchito la collezione con opere vittoriane e preraffaellite.

La seconda sezione, invece, ripercorre la scena francese del XIX secolo, dall’esperienza dei barbizonniers – ben rappresentata da un poetico paesaggio di Corot – al realismo di Courbet – presente in mostra con uno splendido scorcio delle falesie di Etretat -, per arrivare, passando da Monet, Sisley e Degas, fino alle generazioni del postimpressionismo. Una sezione eterogenea, che comprende pochi decenni di pittura ma una sorprendente varietà di linguaggi, suggerendo un percorso molto noto ma sempre interessante, che prende avvio dalle ricerche sul vero dei grandi padri del movimento, prosegue negli anni d’oro dell’impressionismo per arrivare a coloro che, forti delle sperimentazioni formali e delle conquiste della nouvelle peinture, si sono spinti più in là, aprendo le porte al XX secolo. Presenti nella sezione, oltre alle personalità cardine di questa epocale svolta – quali Cezanne e Van Gogh – ci sono anche artisti come Signac, Le Sidaner, Vuillard, Bonnard e altri. L’Art Gallery, peraltro, vanta un importantissimo nucleo di opere francesi della seconda metà del XIX secolo. Se i gusti di Hugh Lane – ben rari per un inglese – hanno favorito l’arrivo nel museo di alcuni capolavori dei maestri dell’impressionismo, successive donazioni come quelle di Otto Beit del 1910 e del 1913, hanno portato nuove importanti acquisizioni, incrementate poi dall’acquisto di altre opere sulle piazze di Londra, Parigi e Amsterdam.

Bisogna attendere invece ancora alcuni decenni prima che il percorso del museo presenti anche qualche esempio di arte più d’avanguardia. Questo più recente nucleo contemporaneo occupa la terza sezione della mostra. Ben rappresentati sono i protagonisti della scena del primo Novecento, tra ricerche d’avanguardia e ritorni all’ordine: da Derain a Picasso, da Modigliani a Matisse. Il percorso prosegue poi nel secondo dopoguerra, con opere di importanti maestri della scena inetrnazionale, tra cui spicca un doloroso ritratto di Francis Bacon.

E così arriviamo all’ultima parte della mostra, quella da cui siamo partiti: la scena sudafricana, l’arte del mondo di Lady Phillips, sempre vicina alla propria madre patria anche al tempo dei lunghi soggiorni in Gran Bretagna. Le opere esposte sono firmate da artisti ben rappresentativi di un contesto che da sempre si dibatte tra culture diverse, diviso tra tradizioni locali e influenze europee. George Pemba, Maud Sumner, Selby Mvusi e Maggie Laubser portano il loro importante contributo a un dibattito ancora acceso, che ha segnato la storia del museo fin dalle sue orogini: la ricerca di una vera identità della nazione sudafricana, la pacificazione e l’integrazione di razze, etnie, culture differenti, dal cui dialogo non possono che nascere stimoli straordinari, certamente non solo per la creatività artistica.

La nostra esposizione si ferma qui, ma la collezione e la storia della Johannesburg Art Gallery proseguono invece ben oltre. E se ancora qualcuno dubitasse della complessità e importanza del suo patrimonio, potremmo ricordare che il museo possiede anche un ricco repertorio di arti decorative e di opere che, per ragioni di logica espositiva, non è stato possibile inserire nel nostro percorso. Nel 1934, ad esempio, Howard Pim lascia 551 stampe di artisti quali Durer e Rembrandt, un nucleo che ha dato avvio al particolare interesse che la Art Gallery nutre per l’opera grafica. Eduard Houthakker, invece, dona al museo notevoli dipinti di arte olandese del XVII secolo; l’area nordica, del resto, è molto ben rappresentata anche per i secoli successivi, fino alla Scuola dell’Aia. E poi ricchissime collezioni di merletti, ceramiche orientali e occidentali, tessuti, ventagli, mobili, oggetti tradizionali. Un immenso repertorio di stili, linguaggi, tecniche che si fa racconto multietnico e multiculturale.

Una realtà davvero preziosa e tutta da scoprire quella della Johannesburg Art Gallery, una realtà consapevole del proprio passato ma fermamente convinta della necessità di uno sguardo verso il futuro. Un museo importante, vitale, che ha preso vita da una passione, e che con passione e intelligenza prosegue ancora oggi il proprio cammino.

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