Realizzata tra il 1602 e il 1604, la Deposizione è sicuramente uno tra i più celebri dipinti a olio su tela di Caravaggio. Il quadro contribuì, grazie al suo gioco di luci e ombre e all’espressività dei volti dei personaggi, ad accrescere la fama di un artista eccezionale che, obliato per un lungo periodo, è stato riscoperto pienamente soltanto nel Novecento.

Deposizione Caravaggio
Un artista sopra le righe
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio nacque nel 1571 a Milano; il soprannome deriva dalla città di provenienza dei genitori e dal supposto luogo di nascita del pittore stesso. Il padre Fermo era probabilmente un architetto che lavorava alla costruzione delle chiese milanesi, per cui si può immaginare che il piccolo Michelangelo sia cresciuto in mezzo ai cantieri paterni. Dopo la morte del padre e la fine della pestilenza che aveva costretto la famiglia a fuggire via da Milano, il giovane Michelangelo andò a bottega presso Simone Peterzano, un esponente del manierismo lombardo. Dopo la morte della madre nel 1590, Caravaggio andò forse a Venezia e sicuramente a Roma, dove cominciò a guadagnarsi fama come pittore, ma ebbe anche i primi guai con la giustizia a causa del suo carattere focoso e irascibile, che lo spingeva a frequenti scontri. Costretto a fuggire da Roma nel 1604 dopo l’omicidio del rivale Ranuccio Tomassoni e la conseguente condanna a morte, Caravaggio andò a Napoli, poi fuggì a Malta e in Sicilia, poi nuovamente a Napoli; infine, morì nel 1610 a Porto Ercole, in provincia di Grosseto, mentre attendeva la revoca della condanna a morte da parte di papa Paolo V.
La Deposizione
Si tratta di un grande dipinto ma anche di un dipinto grande (misura tre metri d’altezza per due di lunghezza) commissionato a Caravaggio durante il suo periodo romano da Girolamo Vittrici, nipote del defunto Pietro Vittrici, che era proprietario di una cappella nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, sede dell’oratorio istituito da san Filippo Neri.
Il quadro, nonostante il nome con cui è noto, non rappresenta il momento della deposizione di Cristo nel sepolcro, bensì il momento precedente all’inumazione, cioè quando il corpo senza vita di Gesù viene appoggiato su di una lastra marmorea detta lapis untionis per essere lavato, unto e profumato, come scrive lo storico dell’arte Antonio Paolucci, per dieci anni direttore dei Musei Vaticani, dove oggi si trova il quadro. È stato rilevato come il dipinto sia stato realizzato appositamente per essere sospeso sopra l’altare, poiché l’unico modo per apprezzarne tutti i dettagli è vederlo dal basso.
Nel quadro, il corpo di Cristo morto è in primo piano, in piena luce, sorretto per le gambe da Nicodemo (secondo il Vangelo di Giovanni, l’ebreo pietoso che depose Gesù dalla croce) e per il torace dall’apostolo Giovanni, mentre dietro di loro le tre Marie (la Vergine, la Maddalena e Maria di Cleofa, madre di Giacomo il cugino di Gesù) esprimono in vario modo il loro dolore, rendendo lo spettatore direttamente partecipe della scena.
Il cadavere, nudo, appare pesante, in caduta verso il basso se non fosse mantenuto dai due discepoli, con un braccio penzoloni: si tratta di un evidente omaggio al braccio di Gesù della Pietà scolpita dall’altro grande Michelangelo, il Buonarroti, per cui Caravaggio nutriva un’ammirazione sconfinata. Il naturalismo caravaggesco è evidente nella rappresentazione delle ferite alle mani, ai piedi e al costato. Nicodemo, che sorregge con fatica immensa le gambe di Cristo, è l’unico personaggio che sembra guardare verso il pubblico; nel suo volto c’è chi, come lo storico e filosofo dell’arte Rodolfo Papa, vi ha riconosciuto le fattezze di Michelangelo confrontandolo con il suo Ritratto esposto a Casa Buonarroti, mentre altri studiosi, quali il Paolucci, ritengono che si tratti di Pietro Vittrice, alla cui memoria è dedicata la cappella in cui si trovava il quadro. L’uomo è a piedi nudi e mostra le gambe muscolose e possenti da contadino abituato alla fatica. San Giovanni è l’unico vestito in colori più vivaci (rosso e verde petrolio), che contrastano con i colori neutri degli abiti degli altri personaggi.
Appare in ombra e in atteggiamento meditativo, assorto; la mano sinistra, invece di reggere la salma, è appoggiata sul ventre di Cristo, quasi a volerlo accarezzare. Dietro Nicodemo, la Vergine è rappresentata come una madre, non più giovane, impietrita dal dolore, quasi senza più lacrime. Accanto a lei, Maria Maddalena si asciuga il pianto con un fazzoletto. Il naturalismo di Caravaggio è evidente anche qui, dal dettaglio delle lunghe trecce che corrono attorno alla testa di lei. La disperazione di Maria di Cleofa, invece, è più evidente rispetto alle altre figure, nel plateale gesto con le braccia alzate verso il cielo e nella bocca spalancata.
Va sottolineato, nel quadro, anche il ruolo fondamentale della luce: come afferma ancora Antonio Paolucci, infatti, Caravaggio fu il primo a intuire la portata dirompente della sua idea della luce come disvelamento, come elemento che mostra il Vero nella sua immanenza, e questo rende il pittore estremamente moderno. Il corpo di Cristo, infatti, è investito in pieno da un raggio che lo illumina, come rilevò l’illustre critico Roberto Longhi, uno dei primi nel Novecento a rivalutare la figura di Caravaggio, interpretandolo (in parte erroneamente) come un “poeta maledetto” a causa dei suoi eccessi e come il fautore di un rinnovamento artistico radicale che rivisitava in senso laico e progressista i temi tradizionali. Oggi si può dire che Caravaggio fu sì un profondo innovatore, ma anche che la sua opera rientra complessivamente nel quadro della religiosità della Controriforma, nello spirito di san Filippo Neri.
Ma non è soltanto il Messia a essere illuminato: come indica nuovamente il Paolucci, anche lo spigolo del letto marmoreo utilizzato per appoggiare il corpo è evidenziato dal raggio, ed è disposto in maniera tale che il sacerdote, al momento dell’elevazione dell’ostia durante l’eucarestia (bisogna ricordare, infatti, che il dipinto era fatto in modo da essere collocato al di sopra dell’altare), mentre pronuncia le parole «Questo è il mio corpo», si sarebbe trovato perfettamente allineato con lo spigolo della lastra, quasi a simboleggiare, con la continuità, la relazione tra l’ostia, il corpo di Cristo e la pietra, cioè che non solo la pietra scartata diventa testata d’angolo, come recita il Salmo 118, ma anche che su quella pietra riposa la speranza di salvezza di Pietro Vittrice, dedicatario dell’opera, e di tutti noi.
Le vicende del quadro
Il dipinto rimase nella cappella Vittrice della chiesa di Santa Maria in Vallicella fino al 1797. A seguito del trattato di Tolentino, che venne di fatto imposto da Napoleone Bonaparte al papa Pio VI, il quadro venne portato in Francia sotto la guida di Giuseppe Valadier ed esposto al Musée Napoleon (che sarebbe poi diventato il Louvre). Nel 1816 fu restituito ed entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana, dove oggi può essere visitato.