“Ecce Homo”: queste, secondo il Vangelo di Giovanni, le parole che furono pronunciate da Ponzio Pilato ai Giudei nella speranza che la flagellazione fosse punizione sufficiente per il Cristo.
Con questo scarno ma profondo titolo si indicano tre successivi quadri in cui Antonello da Messina tenta di rappresentare uno dei momenti più alti della cristianità: il primo conservato presso la galleria del Collegio Alberoni di Piacenza, il secondo al Louvre di Parigi, il terzo Ecce Homo nella Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di Genova.
L’Ecce Homo genovese, è un dipinto eseguito da Antonello da Messina a olio su tavola di pioppo (38,7 x 29,8 cm) di chiaro influsso fiammingo, databile intorno al 1474.
Sullo stesso tema ma con disegno diverso esiste anche una versione intitolata “Cristo incoronato con le spine”, probabilmente del 1470, quindi precedente ai tre, custodito al Metropolitan Museum of Art di New York.
I quattro dipinti costituiscono quello che è comunemente indicato come “il ciclo dell’Ecce Homo” nel quale il pittore rappresentò tre varianti dello stesso disegno testimoniando l’evoluzione seguita da Antonello da una versione all’altra evidentemente secondo un progetto di studio della sua costruzione nello spazio. Un percorso che si manifesta attraverso alcuni accorgimenti quali la semplice rotazione del corpo, il rapporto con la balaustra dalla quale lo immagina affacciarsi, il porsi davanti alla colonna della flagellazione o l’apparire totalmente isolato nel buio.
La preziosa tela genovese è conservata come uno dei capolavori più prestigiosi del museo di Galleria Spinola in Pellicceria edificio che storicamente fu dimora delle più importanti famiglie aristocratiche genovesi, dai Grimaldi e Pallavicino, ai Doria e che deve il suo nome al quartiere che un tempo ospitava, appunto, la corporazione dei pellicciai.
Si ignora quale fu il momento e a chi si debba l’ingresso nel patrimonio del palazzo dell’opera di Antonello poiché è assai scarsa la documentazione sulla storia del dipinto nel periodo tra la sua esecuzione e la prima citazione certa della sua presenza: nel 1846 lo storico Federico Alizeri, nel suo catalogo sulle opere d’arte genovesi, collocò infatti “un Ecce homo in tavola attribuito ad Antonello da Messina” tra i dipinti del secondo salotto del piano nobile.
Nel corso dei secoli, visto anche il precario stato di conservazione, molti addetti ai lavori ne misero addirittura in dubbio l’autenticità e in effetti della vita di Antonello, data la penuria di fonti e documenti, tutto è misterioso, dai viaggi, ai rapporti con i Fiamminghi, alla conoscenza e influenza di Piero della Francesca.
A spazzare il campo da dubbi sull’autografia della versione genovese fa chiarezza la determinante scoperta, nel 1946, del “cartellino” con la firma “Antonellus Messaneus Me”, apposto sul legno della cornice ma fino a quel momento nascosto da una doratura posticcia, probabilmente settecentesca.
Alla luce di tale scoperta, ormai, la critica sembra oggi concordare, oltre che sul riconoscimento della loro paternità, anche nella definizione di una successione cronologica delle quattro versioni di Antonello dell’Ecce Homo, a partire da quella, datata 1470, del Metropolitan di New York strettamente legata alla versione di Palazzo Spinola, forse di poco antecedente, mentre sono da considerare più tarde quella del Collegio Alberoni , il cui cartellino dovrebbe leggersi 1475 o 76, e il “Cristo alla colonna”, di poco posteriore, oggi al Louvre.
Degli Ecce Homo di Antonello da Messina, la più famosa è appunto quella datata 1474 esposta presso la Galleria Nazionale di palazzo Spinola nella quale l’artista esalta il momento cruciale della Passione di Cristo, ma soprattutto rappresenta spunto emblematico per una riflessione sul rapporto tra divino e umano, sul dolore, sull’interiorità della sofferenza.
Emerge così con forza, ciò che è stato intimamente percepito dal pittore attraverso la ricerca sull’espressione del dolore: una riflessione sul significato più profondo della natura umana sulla Passione del Cristo nell’alternativa tra il renderla come sofferenza fisica o comunicarla come sofferenza interiore. E quel disarmante sguardo così pieno di angoscia continua ad offrire a ciascuno osservatore motivo di introspezione strappandolo dall’indifferenza.
La divinità ci appare senza mediazioni, in tutta la sua umana imperfezione dettata dalla transitoria condizione mortale. L’espressione sofferente del volto contrasta con la perfezione dell’esecuzione e testimonia una condizione di infelicità vissuta e rappresentata, con grande tensione e partecipazione, dall’artista.
L’inclinazione della testa, la smorfia della bocca, la disincantata disperazione dello sguardo sono questi i segni del suo aver colto il mistero. In questa immagine Antonello comprende quanta umanità ci sia nel divino. Il Cristo è umiliato, sconfitto, punito per la parte di destino di cui si è fatto carico. Un Dio troppo umano, arrendevole (abbandonato, remissivo), in una umanità rassegnata.
Le emozioni suscitate da questa sentenza rappresentano uno dei momenti più alti della cristianità e sono state fonte di ispirazione per numerosi artisti che, nel corso dei secoli, si sono cimentati nel dipingere la stessa immagine e interpretare con la propria sensibilità l’umanità di quell’episodio: Bosch, il Correggio, Tiziano, Van Dyck, Rembrandt e molti altri ancora hanno raffigurato un loro “Ecce Homo” come prova obbligata e necessaria della propria arte.
Persino lo stesso Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, nel primo decennio del ‘600 non poté esimersi dall’annoverare fra le sue opere un Ecce Homo. Curiosa e misteriosa la storia di quest’olio su tela (128 x 103 cm).
Curiosa come la vicenda legata a questa versione del quadro poiché il committente romano il Cardinale Massimini ne chiese la realizzazione anche ad altri due illustri colleghi del meneghino, il Cigoli e Domenico Passignano in una sorta di gara d’appalto. Il prescelto fu il quadro del Cigoli nonostante alcune fonti sostengano che l’Ecce Homo del Caravaggio non giunse mai nelle mani del suo mecenate bensì in quelle dei due pittori rivali che ne trassero ispirazione per le loro rispettive copie.
Misteriosa come il suo arrivo a Genova. Secondo altre fonti l’opera sarebbe stata addirittura dipinta in loco. Sarebbe stata un dono del pittore per sdebitarsi dell’ospitalità offerta da Giovanni Andrea Doria., erede del più illustre avo, l’invincibile ammiraglio Andrea. Intrigante infatti è la somiglianza tra il ritratto del Principe di Sebastiano del Piombo e quello del Pilato caravaggesco. Opera che Caravaggio sicuramente aveva avuto occasione di ammirare dal vivo quando fu ospite per circa un mese nella Villa del Principe dove il Doria gli avrebbe proposto, ricevendone risposta negativa, di affrescare una Loggia del palazzo. Una Loggia oggi purtroppo dimenticata attigua alle Mura degli Zingari, la calata su cui i giardini della villa degradava direttamente sul mare.
La versione più plausibile, sulla quale sembra concordare la maggioranza dei critici, rimane quella che confermerebbe come l’opera sia stata commissionata dal Massimi e che sia stata poi venduta al Nunzio apostolico spagnolo a Madrid. Come sia giunto ai piedi della Lanterna non è dato saperlo anche se si pensa che dalla penisola iberica sia pervenuto, attraverso la Sicilia, nelle mani del procuratore della Repubblica genovese di stanza a Napoli. Compare per la prima volta, dimenticato nei depositi, in un inventario del Palazzo Bianco del 1921 etichettato sotto la dicitura “copia di Lionello Spada”. Rinvenuto sotto le macerie di un bombardamento della seconda guerra mondiale conosce una seconda giovinezza venendo rivalutato e certificato come autentico.
Autenticazione messa in dubbio da diverse parti che, sebbene supportata da diversi ritocchi in alcune sue parti (mani di Pilato, testa, braccia e perizoma di Gesù), che dimostrerebbero quanto meno il contributo di più allievi, non è stata ancora condivisa e accettata. La critica ne conferma sostanzialmente l’illustre paternità.
Il milanese si stacca dalla tradizione consolidata ambientando la sua visione non all’epoca i Gesù, come avevano fatto i suoi illustri predecessori, ma contemporanea alla propria. Lo si deduce dalla scelta degli abiti secenteschi del boia e soprattutto del Governatore, vestito come un Don Rodrigo di manzoniana memoria. La descrizione della scena è comunque assai fedele alle sacre scritture e rappresenta, in un contesto di tinte scure, la purezza e la lucentezza del corpo del salvatore in contrasto, appunto con le vesti nere e l’espressione torva e perplessa di Ponzio Pilato.
Protagonista assoluta e centrale rimane la raffigurazione del volto del Nazzareno, il cui sguardo, rivolto verso il basso con gli occhi socchiusi, rivela tutta la sua rassegnazione nell’accettare il crudele disegno paterno. La corona di spine sottolinea il dileggio a cui è stato appena sottoposto e che non ha risparmiato né l’uomo, né il Dio. Più che un Dio, “Ecco l’uomo” sconfitto e deluso dal comportamento dei suoi simili. In uno sguardo due sentimenti: da una parte divina sopportazione del destino e dall’altra umano sconforto per la sconfitta.
Alle sue spalle il carnefice sembra invece quasi non voler disturbare la scena, seppur costretto nell’intromettersi. L’espressione ne rivela infatti il profondo travaglio interiore: da una parte la volontà di adempiere al proprio dovere di boia e dall’altra, testimoniata dall’atto di coprire le spalle del Cristo appena mostrato alla folla, la potenza di un atto di grande umanità. Volontà e potenza. Ma veramente con il mantello copre le spalle al Cristo appena mostrato alla folla oppure le scopre con spocchia prima?
Di nuovo Caravaggio psicologo interpreta due sensazioni contrastanti e nel fare ciò rivoluziona la pittura promuovendo a protagonista della scena la realtà terrena dell’hic et nunc e, di conseguenza, riporta il divino sulla terra. Ecce Homo, Ecco l’Uomo. Antonello e Michelangelo a Genova Ecce Homines.