Nella dinamica creativa che si instaurò fra Paul Gauguin e Vincent van Gogh ebbe un’importanza fondamentale il modo in cui ognuno dei due, involontariamente o meno, affrontò le esigenze e stimolò lo sviluppo artistico dell’altro. Lo scambio nasceva da una comprensione imperfetta, ma alimentata da un’influente combinazione di somiglianze e differenze. Si somigliavano, sotto certi aspetti, i loro percorsi di vita: i due, entrambi autodidatti, avevano intrapreso la carriera artistica relativamente tardi, dopo aver subìto una serie di fallimenti professionali e di contrasti nei rapporti personali.
Attraverso il nuovo mestiere, entrambi puntavano con una straordinaria chiarezza di intenti a riproporsi in un’altra veste, a costruirsi una nuova identità. E insieme, scoprirono una lingua franca pertinente alla sfera estetica tramite cui poter discorrere di idee e preferenze. Al di là di questi punti di contatto, tuttavia, esistevano fra loro profonde differenze riguardanti l’ambiente di provenienza, il temperamento e le esperienze fatte, che concorsero a imprimere un orientamento diverso al modo in cui ciascuno dei due vedeva la vita, interpretava l’arte, intendeva la missione dell’artista e si presentava al mondo.
Quando si conobbero, il trentanovenne Gauguin aveva già girato il mondo e messo su famiglia, si era dato agli affari e aveva aderito alla pratica e alla politica dell’avanguardia artistica; il trentaquattrenne Vincent, il vissuto del quale non reggeva il confronto con quello del collega, era pronto a rimettersi alla sua maggior esperienza. Ma Gauguin, contrariamente a Vincent, non aveva investito tanti anni della propria vita in quello che fu sostanzialmente un corso di autoanalisi, né aveva una coscienza delle proprie origini, della propria identità e dei propri obiettivi altrettanto radicata; da questo punto di vista, dunque, Gauguin aveva molto da imparare dal più giovane Vincent.

Vincent Van Gogh – Bibbia aperta con candeliere e romanzo – Ottobre 1885 – Olio su tela 65×78
Due nature morte di particolare rilievo ci consentono di comprendere meglio la formazione artistica dei loro autori. Si tratta in entrambi i casi di un tentativo di autorappresentazione pittorica; le due opere furono dipinte nel 1885, anno che segnò una svolta nella carriera di entrambi, e si possono leggere come una sorta di addio agli anni precedenti. Pur ponendosi all’interno della tradizione storico-artistica, ambedue ne infrangono gli schemi; ambedue fanno ricorso a un simbolismo personale e collettivo e ambedue rimandano alla costruzione di un’identità. Può darsi che le opere realizzate in seguito da Vincent e Gauguin rivelino esteriormente una scarsa somiglianza con queste prime prove; certo è, però, che affrontano gli stessi temi di base.
Nella tela di Vincent compaiono un romanzo moderno, una Bibbia aperta e una candela spenta, elementi che apparentano la composizione alle nature morte del Seicento olandese e in particolare alla tradizione iconografica della vanitas. Questo genere, che con fine moralistico affrontava i temi della fugacità della vita, della precarietà delle cose terrene e della desolazione di una vita senza Dio, doveva la propria leggibilità alla continuità che stabiliva con la cultura popolare per mezzo dei libri di emblemi, caratterizzati da abbinamenti edificanti e memorabili di una semplice immagine con un breve testo.
Benché una vanitas abbia un significato più o meno consolidato, la combinazione dei suoi elementi costitutivi può dare origine a una certa ambiguità. È appunto ciò che avviene in questo caso. Lasciandosi guidare dal suo nuovo interesse per il colore e da una tecnica pittorica coscienziosamente perfezionata nei quattro anni di studio indipendente compiuti dopo aver preso la fatidica decisione di diventare pittore, Vincent istituì una serie di opposizioni fra grande e piccolo, aperto e chiuso, monocromo e colorato, come pure fra i testi raffigurati. Data la specificità di questi testi, sembra evidente che la loro funzione sia la stessa, esplicativa, della tradizione emblematica. La Bibbia è aperta al capitolo 53 del Libro di Isaia, ben noto a quanti abbiano una cultura biblica poiché si tratta del carme più spesso citato tra quelli detti del “Servo di Dio” composti da questo profeta e poeta. Il protagonista, “disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire”, soffre per i peccati altrui e si pone dunque come prototipo del Cristo e della promessa di vita eterna formulata nel Nuovo Testamento.
Il secondo testo raffigurato da Vincent è un romanzo di Emile Zola del 188 intitolato La gioia di vivere, che con la sua presenza parrebbe voler rafforzare il me tradizionale della vanitas: la Bibbia è la verità durevole in base alla quale tutto si misura e tutto risulta manchevole; i fugaci piaceri della vita impallidiscono di fronte alla morte e al significato trascendente del verbo di Dio, unico strumento di salvezza.
Ma è davvero così diretto il messaggio di questa natura morta? Se la ponderosa mole della Bibbia allude senz’altro all’autorità del testo, il giallo vivace del romanzo svia l’attenzione dell’osservatore, minacciando di eclissare la sacra scrittura. Anche la candela spenta, metafora comune della natura effimera dell’esistenza, si pone qui come simbolo dalla valenza incerta, essendo associata più apertamente al testo sacro che al romanzo.
L’ambiguità aumenta ammettendo che l’importanza del tomo giallo non si può giudicare dalla copertina. Nel 1885 la gioia di vivere non era, come qui, un libro chiuso all’osservatore; chiunque conoscesse i temi sollevati da Zola intorno alla fede nell’età della scienza sarebbe stato in grado di individuare il potenziale sovversivo di questo abbinamento. Nel silenzioso dipinto di Vincent c’era in ballo una battaglia di testi.