Analisi dell’opera In Vedetta di Giovanni Fattori. Quale il significato? Quale la verità di un quadro che ha fatto epoca. Cosa dire di un artista così grande? Bene, abbiamo pensato che nessuno più di Argan e Oliva potessero rispondere, ecco di seguito l’analisi dei grandi critici.
Uno dei capolavori di Fattori, In vedetta (1868-1870), è un quadro addirittura paradigmatico. C’è dapprima uno spazio vuoto, ridotto all’essenzialità di un piano orizzontale e di un piano verticale, ortogonale; a questo spazio essenziale corrisponde una luce essenziale, portata al massimo grado d’intensità, il bianco. D’un tratto, all’incontro delle coordinate, compare la pattuglia, da cui si è staccato un cavaliere che si avvicina seguendo il muro. A questo punto si ferma il tempo, si blocca lo spazio del racconto: tutti i valori del quadro si allineano nel perfetto corrispondersi ed equilibrarsi di colori-luce e colori-ombra (i chepì bianchi sul cielo grigio-azzurro, le uniformi scure sul chiaro, bianche le bandoliere sulle giubbe turchine, neri e bianche i cavalli).

La profondità si spiana nella superficie, come in una tarsia prospettica del Quattrocento: Fattori ha eliminato l’effetto scenografico della prospettiva, l’ha ricondotta alla sua funzione originaria, ha composto lo spazio come Paolo Uccello nel Miracolo dell’Ostia. Tuttavia lo spazio non è astrattamente geometrico: il piano orizzontale è sabbioso, con piccoli mucchi di detriti; il piano ortogonale è un muro, di cui si sente l’intonaco calcinato dal sole. E la luce non è la luce universale di Piero della Francesca: è la luce di una tarda, afosa mattinata d’estate. Quasi miracolosamente Fattori riesce a scegliere e fissare l’istante in cui “il particolare”, l’episodio dei cavalleggeri in avanscoperta in un luogo deserto e assolato, coincide con l'”universale” dello spazio geometrico e della luce assoluta. Dimostra così che il suo linguaggio storico, universale, si adatta benissimo alla realtà presente, e che il sistema figurativo dell’arte toscana può diventare il sistema figurativo dell’arte italiana moderna.
Invece non lo è diventato, e non soltanto perché l’Italia unita non ha saputo sviluppare le spinte popolari, a cui doveva l’unità. Se lo stesso Fattori non sempre raggiunge l’identità assoluta tra episodio visivo e costruzione spaziale, gli altri macchiaioli cedono spesso alla tentazione del “bozzetto” icastico, dell’aneddoto ben raccontato. Telemaco Signorini, nel 65, rappresenta La sala delle agitate di un manicomio. Come Fattori nel dipinto ora descritto, definisce con nuda chiarezza la prospettiva del camerone, la riempie di luce bianca, fa risaltare le figure piccole e scure nel gran vuoto chiaro.

Ma le linee prospettiche convergono a un angolo della stanza, le figure si profilano sui piani sfuggenti, i contorni diventano sottili e taglienti per descrivere d’ogni figura il carattere o il gesto. La prospettiva non è la struttura dello spazio, ma una sorta di obiettivo fotografico che permette una messa a fuoco rapida e nitida: per Signorini lo “spirito toscano” è intelligenza pronta, osservazione penetrante, commento arguto. Non mira, come Fattori, al nucleo profondo, alla struttura della lingua, ma all’impiego agile, elegante, efficace di un linguaggio familiare: così, nella cultura figurativa dell’epoca, la sua opera non è altro che un brillante, ma limitato episodio toscano.
Dei macchiaioli, quello che maggiormente s’accosta, fin quasi a sfiorarla, alla problematica del primo Impressionismo, è Silvestro Lega. Un quadro come Il pergolato, dipinto tra il ’64 e il ’68, non può non rammentare, anche nel tema, le contemporanee ricerche en plein-air di Bazille e Monet. Eppure, al confronto il dipinto di Lega appare aneddotico: non s’impone allo spettatore con la pienezza della sua presa realtà, lo interessa come un aspetto gradevole, ben scelto e bene interpretato.
La pittura di Lega è severa, non cede a frivolezze descrittive o narrative; ma utilizza due sistemi rappresentativi diversi, che si sovrappongono senza fondersi: la macchia e la prospettiva. Il miracolo a cui è arrivato (e non sempre) Fattori, non si ripete: qui le macchie del colore e della luce sono costrette a disporsi secondo un preordinato telaio prospettico (i tralicci della pergola,le file dei mattoni nel pavimento, il muricciolo, i cipressi lontani). Per quanto sonore, vivaci e magistralmente accordate, le note cromatiche e luminose non fanno lo spazio (come per esempio, in Donne in gradino di Monet), ma riempiono uno spazio dato; non muovono lo spazio imponendogli il loro ritmo, si muovono lungo i percorsi obbligati di uno spazio dato e immutabile. E poiché, muovendosi, appaiono come mutevoli rispetto ad una realtà che non muta, la loro presenza è episodica: se, per ipotesi, l’armatura prospettica scomparisse, la saldezza cromatica si dissolverebbe in vapori colorati (come appunto in Cremona o Ranzoni).
L’esito dell’impulso rinnovatore dei macchiaioli è stato diverso da quello che i pionieri del movimento si proponevano nelle animate discussioni al Caffè Michelangiolo: spenta la speranza di far del toscano il linguaggio pittorico italiano, agli epigoni dei macchiaioli non rimane altra uscita che l’apologia del folclore e del dialetto (Ferroni, Gioli, Cannicci, Tommasi). L’amara prova che il riformismo velleitario delle due “scuole” di Napoli e di Firenze non poteva portare ad un rinnovamento per la capitale e andranno a lavorare a Parigi.
A De Nittis (1846-1884), che si era trasferito a Parigi nel ’67, toccò l’onore di esporre nel ’74 nella storica mostra degli impressionisti presso il fotografo Nadar, sia pur soltanto per attenuarne l’accento scandalistico; ma l’esperienza parigina e londinese rimase, per lui, esperienza più mondana che artistica. Il veneziano Federico Zandomeneghi (1841-1917), che da giovane fu in rapporto diretto con i macchiaioli ed amico di Diego Martelli, si stabilì a Parigi nel ’74 e lavorò con successo accanto agli impressionisti, e specialmente a Degas: ripetendone i motivi, imitandone i tagli compositivi ed i colori striduli e freddi, ma senza capire la novità strtturale della sua pittura. Giovanni Boldini (1842-1931) si formò a Firenze con i macchiaioli dando prova di un talento precoce e brillante; dal 1870 lavorò prima a Londra e poi a Parigi diventando in breve il ritrattista alla moda, pieno di estro e di eleganza, ma incapace di vedere nell’arte degli impressionisti, di cui fu pure mico, più che una tecnica “moderna” al servizio di un virtuosismo grafico-cromatico sorprendente e affascinante, certo, per la sua spregiudicatezza, ma mirante infine a riannodare la nuova pittura ad una storia che non era la sua, e cioè (come volevano i Gouncourt) al Settecento libertino di Watteau, di Fragonard, del Tiepolo, del Guardi.