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  • Pellegro Piola. Nella biografia del pittore la verità sulla sua morte
Alessandro Trizio
mercoledì, 05 Settembre 2018 / Pubblicato il Artisti

Pellegro Piola. Nella biografia del pittore la verità sulla sua morte

La vita di Pellegro Piola è breve quanto piena di avvenimenti di ogni tipo. La famiglia Piola era di origini abruzzesi, si stabiliscono in Liguria alla fine del 14mo secolo. Da allora abbiamo notizie dei capostipite della geneaologia Piola. Dopo diverse generazioni Paolo Batta che di lavoro fa il sarto, come tanti suoi antenati, si sposa con Maddalena Zerbi di Giacomo. E’ probabile che Maddalena fosse parente del pittore Vincenzo Zerbi. La data di morte della donna non è certa, nessuna documentazione attesta il momento del decesso. Per il Paolo Batta invece la sua morte si attesta verso il 1655/1660.

Paolo e Maddalena ebbero ben sette figli. Pellegro, Gerolamo, Giovanni, Andrea , Domenico e un gemello che però morì da piccolo, Giulia e Angela.

Pellegro Piola nasce a Genova il 5 giugno 1617, sotto il dogato di Giovanni Giacomo Imperiale. Il suo atto di nascita era conservato nell’archivio della Parrocchia abbaziale di S. Stefano; andò perduto durante uno dei tremendi bombardamenti che batterono Genova nel 1941, causando danni irreparabili a molte opere d’arte. Era così scritto: «Anno 1617, 5 Giugno Pellegro figlio di paolo battista piora e maddalena sua consorte, li padrini pietro giuseppe giustiniano et [e]milia curlo. A dì 9».

Durante i primi anni di vita di Pellegro il padre volle avviarlo alla pittura, e all’età di dodici anni lo condusse nella «stanza» di Gio. Domenico Cappellino, artista «molto considerato», perché compisse il consueto apprendistato pittorico. Il Cappellino, allora quarantanovenne, era stato prediletto del Paggi, ai cui modi toscaneggianti aveva lungamente fatto riferimento; pittore di discreta qualità mostrava particolare attenzione agli stilemi del caravaggismo, con dipinti d’impianto centralizzato e attenzione pignola ai colori. Al Cappellino Pellegro deve la conoscenza di determinati maestri: dai grandi del Rinascimento ad alcuni loro contemporanei, come Sinibaldo Scorza, i cui disegni di animali il Cappellino ricopiava spesso e che lo stesso Pellegro studierà più tardi.

Nel 1634, sempre secondo il Soprani (che rimane il biografo più attendibile dell’artista: perché lo conobbe, gli fu amico, e sotto la sua guida si perfezionò nel disegno), termina l’alunnato di Pellegro presso il Cappellino: il quale sarà poi maestro anche di Domenico, continuatore dei pittori di casa Piola.

Diciassettenne Pellegro si allontana dal maestro ma deve però fare i conti con qualche difficoltà iniziale, nella composizione e nella coloritura. Ma la sua volontà di migliorare è grande, e tale è la serietà con cui si applica all’arte, studiando «principalmente sopra le tavole degli antichi, e buoni maestri», che in poco tempo arriva a «un sì perfetto stile, che allettando i più curiosi, dava loro occasione d’esercitarlo continuamente in qualche gentil lavoro».

Appare perlomeno curioso che Piola, liberatosi «a poco a poco» dalla tutela del maestro, anziché rivolgersi ai pittori di punta che operavano in città si sia ostinato a guardare ai dipinti dei grandi del passato. E’ probabile che Pellegro non sia entrato in qualche rinomata bottega anche per non fare uno sgarbo al Cappellino, che non risulta abbia avuto altri allievi di spicco. Pellegro, tuttavia, mostra di conoscere molto bene lo stile di parecchi pittori. Andrea del Sarto, il Parmigianino, Giulio Cesare Procaccini, il Cerano, Annibale Carracci, lo Strozzi; ai quali si aggiunge Bernardo Castello, Rubens e Van Dyck, qualche veneto.

Il giovane artista, dunque, godeva già di una discreta reputazione almeno presso gli addetti ai lavori; il che spiegherebbe l’invidia che – dice il Soprani – pittori più accreditati provavano per il suo crescente successo; costoro, «cercando il pelo nel uovo, ardivano di divolgare, ch’era Pellegro scarso d’inventioni, e perciò solito a spechiarsi nelle stampe de’ maestri migliori; e quasi irridendolo, ironicamente dicevano, ch’era nato in Genova un nuovo Parmiggiano». Questo appellativo non gli vene dato per le sue doti pittoriche ma invece per abbinarlo ad un carattere bizzarro e stravagante. Ma Pellegro di questa cosa non se ne importava nulla.

Risalgono a quest’epoca i primi quadri di cui si ha notizia: il restauro di un crocifisso dipinto su ardesia, alcuni ritratti per Stefano Antonio Semini, uno stimato mercante di coralli, e «molte tavole fatte d’ordine di molti Signori». E’ quasi certo che in più d’un caso si sia trattato di opere da copiare, come per il Cenacolo di Luca Cambiaso, allora nel refettorio del convento di S. Bartolomeo degli Armeni, che il Piola riprodusse quasi certamente prima del ’36. L’attitudine al lavoro di copista è una caratteristica di famiglia.

Nel 1637 Piola si sposa, il matrimonio venne celebrato nella chiesa di S. Maria dei Servi – oggi scomparsa a causa dei bombardamenti aerei su Genova del 1942-1944 – quasi certamente d’estate. Giovanna Caterina Desiderati era stata battezzata in S. Lorenzo il 22 novembre 1615: aveva, perciò, due anni più dello sposo. Giovanni Andrea, suocero di Pellegro, era un mercante: appunto come «Negoziatores» lo troviamo citato nel 1630 nella lista dei tassati per le Nuove Mura, accanto ai figli Tommaso e Gio. Antonio; un terzo figlio, Gio. Batta, viene proprio nel settembre ’37 coinvolto in una rissa, dove ferisce due persone: chiamato a comparire in giudizio dalla Rota Criminale, per alcuni mesi resta contumace, quindi si presenta e viene condannato e incarcerato. Una brutta grana per la famiglia, dato che il povero Gio. Andrea non si dette più pace: sue sono infatti ben nove suppliche indirizzate al Senato della Repubblica, tra il ’37 e il ’41, per implorare la buona sorte del figlio.

Caterina, che la tradizione vuole modella di molte Vergini pellegresche, e che troveremo citata nei due atti processuali relativi al tragico ferimento del pittore, quattro anni dopo la morte del marito, nel ’44, si risposò. Il triennio conclusivo della vita di Pellegro, il più artisticamente fecondo, registra ben poche notizie. E’ a questo punto, d’altronde, che il Soprani cominciò a diradare le sue visite all’amico pittore: non per un raffreddamento della reciproca stima, ma a causa del progressivo distacco dello scrittore dall’attività artistica, del matrimonio di Pellegro e del proprio, che sarebbe seguìto nel ’40.

La cerchia dei probabili committenti del pittore s’allarga considerevolmente, fino a comprendere personaggi della più eletta nobiltà della Repubblica: Alessandro Sauli, Paolo Spinola, Anton Maria Sopranis sono nomi citati nelle fonti e nei documenti, ma è lecito supporre che anche membri delle famiglie Grendi e Brignole-Sale abbiano avuto in tal senso rapporti con lui.

Il giallo di Pellegro Piola

Tramite, forse, i buoni uffici del suocero, Pellegro ricevette la commissione di una tela d’argomento biblico da Pietro Giovanni Fachinetti, impresario della gabella del sale a Milano e ricco collezionista di quadri. L’artista dipinse per lui un Labano promette Rachele a Giacobbe che riscosse notevole ammirazione. Il Soprani scrive che i Fachinetti scrissero a Pellegro, invitandolo con varie lusinghe a trasferirsi a Milano; questi, che forse avrebbe desiderato andarvi, «doppo d’haver frà se stesso per molti giorni fortemente contrastato» declinò l’offerta, perché la famiglia, essendo il padre «in età molto matura», sarebbe rimasta senza aiuto.

Possiamo datare l’inoltro della tela all’estate avanzata o all’inizio dell’autunno, in base alle parole del Soprani, il quale dice che la Madonna degli Orefici venne intrapresa dal pittore «nell’istesso tempo, ch’egli stava perfettionando la tavola sudetta dello sposalitio di Rachele».

La Madonna per la Corporazione degli Orefici è senza dubbio per il giovane artista la commissione di maggior rilievo, in quanto si tratta d’un quadro destinato all’attenzione di tutti, essendo da porre in un’edicola nella contrada, appunto, degli Orefici. Pellegro si mette al lavoro, e in novembre l’ardesia che contempla il dipinto viene ritirata dai committenti. Solo pochi giorni dopo, il suo autore periva a causa d’un colpo di pugnale.

La Madonna degli Orefici a Genova

La Madonna degli Orefici a Genova

Il fatto è abbastanza noto, tentiamo di far luce anche sulle ultime zone d’ombra d’una delle più interessanti vicende di cronaca del Seicento genovese.
Vediamo, intanto, cosa riferirono i due biografi: Soprani e Ratti.

Soprani, che scrisse a quasi trent’anni dall’avvenimento, sostenne che Pellegro, «andandosene una sera di notte tempo verso sua casa in compagnia d’alcuni amici, s’incontrò con certi giovani, coi quali (per certe parole dette più tosto per ischerzo, che per ingiuria) bisognò improvvisamente azzuffarsi; s’appartò destramente da loro, e verso casa si diede a fuggire: ma sdrucciolando cascò, e vedendo c’haveva quegl’impugnato il ferro per ferirlo stimò non esser conosciuto, e cercò di quietarlo. Mà poco giovò il darsi a conoscere a chi havendo già destinato il colpo non seppe, ò come altri dicono non volle più trattenerlo: anzi mortalmente piagando, forse per invidia più, che per disgratia, l’infelice Pittore, non le lasciò più che poche hore di vita...».

Ratti, del 1768: «In questo tempo vennero sotto la di lui finestra ad invitarlo a spasso alcuni Giovani suoi conoscenti. Il Padre, la Madre, e la Moglie, il pregarono, che in quell’ora importuna si rimanesse in casa. Uscì per tanto con que’ Giovani, che dopo breve giro pervenuti nella lunga piazza di Sarzano, cominciarono a bello studio ad altercare fra loro, e a ingiurarsi con insulti, e minacce: indi vennero alle coltella; e chi assaliva, chi urtava, chi si dava alla fuga. In quella confusione, e mischia fuggiva anche il nostro Pellegro, che niun motivo avea dato alla rissa; quando da un di coloro fu raggiunto, e ferito con un grave colpo di stocco nel mezzo della persona: e il fellone sicario in tale stato lasciollo, dicendogli: Pellegro mio, perdonami, ch’io non t’avea conosciuto».

Le due versioni differiscono tra loro nell’esposizione di alcuni punti chiave. Dopo le precisazioni dello Staglieno e la scoperta e parziale pubblicazione, da parte di Zanolla, degli atti relativi al processo istituito contro l’uccisore dell’artista dal Foro Ecclesiastico possiamo arrivare ad un racconto praticamente certo.

Quella tragica sera di domenica 25 novembre, Pellegro non ebbe bisogno del consenso dei suoi per uscire di casa, dato che «si partì di casa subitto doppo disnare» , e andò poi lui stesso ad avvertire i familiari che non lo aspettassero a cenare. Dalle sue parole, e da quelle delle altre nove persone chiamate a deporre dal Foro Ecclesiastico, si apprende che il Piola si recò in prima serata, accompagnato dal chierico e pittore Giovanni Battista Bianco, nel «mezano» (ammezzato) di prete Ottavio De Barbieri.

Qui erano convenute altre persone per giocare a carte (a «promera», a «briscola», a «bacega»): Gio. Batta Boasi, Lorenzo Sturla, i cugini Stefano e Vincenzo Assereto, il musico Gio. Maria Boié detto il Fornarino, Gio. Gerolamo Podestà, Gio. Agostino Carrega e lo stesso Valdetaro; più tardi sarebbe giunto Emanuele Assereto, sessant’anni, padre di Vincenzo e vicino di casa dei Piola, accompagnato dal suo servitore, Giacomo: ma il Bianco e Pellegro erano già usciti.

Racconta l’Assereto che «finito di mangiare si fece qualche vinazza, cioè il detto P. Bianchi, il Piola, eil P. Barbieri, si posero litovaglioli in testa, e tovaglie, e gustarono il vino sopra la tavola, e con le mani lo toravano e burlavano tra loro, e li altri stavano a vedere et essendo quasi sett’ore (cioè l’una).

Di Giovanni Battista Bianco sappiamo ben poco. Che fosse chierico, e dovesse perciò ancora ricevere gli ordini maggiori, sebbene talvolta venga definito «prete» o «presbiterum», è ormai assodato. Anch’egli pittore, fu forse allievo di Giambattista Carlone.

Sia il Bianco che il Piola erano leggermente alticci. Il Piola con il P. Bianchi andarono di buon passo verso il borgo e “per quanto ho inteso havevano stabilito di andare a cantare, e sonare sotto il balcone di Gio. Andrea mainero detto il Belisarda“. Mentre «il prete era andato a prendere la Chitarra», prosegue l’Assereto, «il Piola cridò con doi giovani che erano ivi in fondo del borgo dicendoli: bardasce fotute, et altre parole simili [«dette più tosto per ischerzo, che per ingiuria, dando ad uno di questi un sciaffo, et in quello capitò il detto P. Bianchi quale vedendo, che detto Piola cridava con detti giovani ferì un di detti giovani a quale non sò il nome ma è figlio di una donna che vende herbe nel caroggio delle Schiave sopra la casa di Gio. Stefano Marenco, et detto giovane è battilana, et di nuovo detto Piola si pose a scorrere uno di detti giovani, e poi si pose detto Piola a scorrere verso detto P. Bianchi, quale P. Bianchi per quanto si dice stimando che fosse uno di detti giovani, che havevano cridato col Piola ferì detto Piola…».

Il giovane pittore subì una profonda pugnalata nel ventre, e mentre il Bianco era ancora alle prese coi lanaioli, si diresse verso il «mezano». Pellegro bussò dal De Barbieri mentre il musico Fornarino intratteneva i presenti con la sua voce. Pellegro entrò, salì le scale e, tenendo le mani sulla pancia, «si assentò sopra una carrega e disse che era ferito, et ogni uno stimò che burlasse ma alla fine uno si alzò e disse che era vero, che era ferito, e interrogato il Piola chi gli aveva dato disse che gli aveva dato il P. Bianchi in errore, e detto Piola disse che si mandasse per il barbiere». Il “barbiere” allora era quello che oggi noi consideriamo un chirurgo, certamente senza le doti e le conoscenze odierne.

Il Bianco «cominciò a piangere e fare gran lamento e che aveva gran disgusto di averle dato»; c’è chi ricorda perfino che egli, seduto sopra uno scalino, «si tirava li capelli e batteva con le mani per il disgusto». Un atteggiamento un po’ teatrale, anche se le frasi che pronunciò per scusarsi, per quanto interessate, suonano sincere: «compagno caro, perdonami», «hai veduto che è stato errore»; una soprattutto, sebbene non deponga sui costumi religiosi del chierico, lo scagiona dalla premeditazione: «ho dato a lui in cambio di un altro». Il Piola confermò questa versione, e del resto la non volontarietà del feritore viene puntualmente affermata in tutte le deposizioni di coloro che assisterono a tale scena. La mattina seguente, lunedì 26 novembre, poco dopo il farsi dell’alba, si recarono dal pittore diverse autorità per la ricerca della verità per l’accaduto ma Piola disse sempre che era stato aggredito da sconosciuti e che non sapeva dire chi fossero. Il 25 novembre 1940 il pittore morì a causa della ferita.

La lacunosa deposizione del pittore, anziché avvantaggiare il Bianco finì per ritorcersi contro di lui, dato che il suo nome saltò fuori da altre testimonianze.

La condanna e l’assoluzione

Il 29 gennaio ’41 la Curia condannò il Bianco a dieci anni d’esilio dalla diocesi genovese, comminandogli anche una multa di mille lire da destinarsi ad opere pie; e il 12 maggio, la Rota Criminale lo condannò invece a cinque anni di galera per il doppio ferimento, più due di bando per il porto abusivo del pugnale. Queste sentenze (motivate dal fatto che egli, in quanto chierico, veniva giudicato anche dal Foro Ecclesiastico) causarono tra i due organismi giuridici un conflitto di competenze: infatti il Vicario arcivescovile, in data 30 luglio 1642, denunciava la non validità della condanna della Rota: pronunciamento passato in giudicato, nonostante l’opposizione dell’avvocato fiscale.

Il Bianco alla galera preferì il bando, come risulta dalla sua supplica al Senato del 1° settembre 1648, per poter essere cancellato dal libro dei banditi dalla Repubblica. Quest’atto presentava in allegato la copia d’un documento rogato dal notaio Giovan Francesco Sovero il 19 marzo del ’46 nella chiesa di S. Giacomo di Carignano, nel quale i Piola concedevano il loro perdono all’uccisore di Pellegro: «…Petri Baptistae [sic], et fratris dictorum [Pellegro] Hyeronimi, Dominici, et Joannis Andreae, patrati per Reverendum Joannem Baptista Blancum, remiserunt et remittunt dicto reverendo Joanni Baptista omnem injuriam et offensam, eique dederunt et dant meram puram et perfectam pacem, et hoc amore Dei». Giustamente tale atto parve allo Staglieno «bellissimo nella sua semplicità»; non è improbabile, come questi opinava, che non poco merito per questa cristiana risoluzione sia dovuto all’opera di mediazione di Gerolamo, fratello della vittima, che qualche anno dopo veniva ordinato sacerdote. In ogni modo il Senato, in data 1° gennaio 1650, negava l’autorizzazione al Bianco, dietro rapporto dei deputati per le questioni ecclesiastiche, con una risposta sibillina e lapidaria: «Nihil esse in presenti causa innovandum»; ma apprendiamo da una nota del fiscale che il 22 marzo dello stesso anno egli veniva, con decreto, liberato previo grazia da «quinquennali relegatione ad triremes» (cioè dalla condanna, dato che per la Rota Criminale era ancora contumace).

Che in quegli anni sia vissuto ritirato a Fontanegli, dove avrebbe affrescato la volta della chiesa di S. Pietro, è un fatto che non interessa più la nostra storia. Dell’uccisore di Pellegro non rimane altro da dire: le sue tracce si perdono o si confondono. Avrà mai intuito, il Bianco, la grandezza della sua giovane vittima?

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