Nel dedalo dei caruggi della Superba, nascosto fra i palazzi che lo circondano, si trova inaspettato come uno scrigno prezioso, il museo della galleria nazionale di Spinola in Pellicceria.
Proprio di scrigno si tratta perché innumerevoli sono le opere che vi sono custodite costituendo una pinacoteca di assoluto prestigio.
L’edificio fu costruito nel 1593 per volontà di Francesco Grimaldi su precedenti strutture medioevali. Della prima versione del palazzo ci ha lasciato precisa documentazione Pieter Paul Rubens nel volume I palazzi di Genova, da lui pubblicato ad Anversa nel 1622 come esempio per i suoi connazionali di dimore patrizie da imitare.
Non stupisce quindi che uno dei pezzi di spicco della ricca collezione sia proprio una delle opere più celebri del pittore fiammingo per committenti privati: il “Ritratto di Giovanni Carlo Doria a cavallo” 1606, olio su tela 265 x 188 cm, in Galleria nazionale di Palazzo Spinola è un mirabile esempio della ritrattistica a cui le grandi famiglie genovesi ricorrevano per celebrare il proprio prestigio.

Ritratto di Giovanni Carlo Doria a cavallo
La tela fu commissionata a Pieter Paul Rubens nel 1606 dal Doge Agostino Doria per festeggiare il conferimento dell’Ordine di san Giacomo, da parte del re di Spagna Filippo III, al figlio Giovanni Carlo.
Il giovane Doria è ritratto in sella a un bel cavallo bianco che si alza sulle zampe posteriori: il nobile, allora trentenne, è vestito con un elegante abito da parata e sulla corazzetta porta impresso il simbolo dell’Ordine di San Giacomo, una croce rossa dello stesso colore della stola che porta legata al braccio. Da notare come Giovanni Carlo Doria tenga le redini del cavallo con appena due dita: è simbolo di fermezza. Dietro alle fronde della quercia notiamo un’aquila, metafora della forza e simbolo della famiglia Doria e della sua appartenenza filo imperiale; il cane dipinto sotto il cavallo invece rappresenta la fedeltà della famiglia alla corona spagnola. Era infatti consuetudine, iniziata da Carlo V con Andrea Doria e proseguita poi da Filippo II con Gian Andrea erede dell’ammiraglio, di donare un cane da guardia in segno di stima e amicizia.
Il movimento impetuoso del cavallo, il dinamismo di diversi elementi come la sciarpa e le fronde degli alberi e i raggi di luce che squarciano le minacciose nubi del cielo, forniscono una potente dimostrazione della poetica barocca di Rubens, volta a impressionare l’osservatore.
Rubens con il suo stile riesce a rappresentare la forza e l’energia del cavallo, sapientemente bilanciato dalla capacità del cavaliere di controllare e dominare la scena. La perizia del pittore riesce inoltre a rendere così poliedrica l’immagine del volto di Gio Carlo da a trasmettere al contempo tranquillità e malinconia.
Il dipinto rimase di proprietà della famiglia Doria a Genova fino al 1838, quando passò al ramo napoletano del casato.
Come spesso accade arte e storia percorrono strade parallele per incrociarsi improvvisamente nelle maniere più sorprendenti: nel 1941 Mussolini, donando la stessa tela a Hitler per rinsaldare i vincoli di amicizia e alleanza, sembra riprendere l’idea del regalo di un cane da guardia.

Hitler amava i Doria
Il Duce infatti sapeva bene della venerazione che il Fuhrer nutriva per la famiglia Doria, in particolare per come l’ammiraglio Andrea aveva saputo consumare l’implacabile vendetta e ridurre al silenzio gli oppositori.
Il Kaiser aveva infatti più volte manifestato la sua ammirazione anche in discorsi pubblici di carattere propagandistico, nei quali il riferimento alla congiura diventava metafora della capacità di dominio, potere e vendetta.
L’interesse per Andrea Doria era nato in Germania già a fine Ottocento, quando l’opera del tedesco Friedrich Schiller, “Die Verschwörung des Fiesco zu Genua”, scritta cent’anni prima nel 1782, aveva conquistato e infiammato le platee tedesche, raccontando le vicende legate alla congiura dei Fieschi.
Come i suoi coetanei anche il giovane Hitler non ne rimase immune già ai tempi della Prima Guerra Mondiale, ma è soprattutto nel 1925 con il suo “Mein Kampf” che l’influenza della famiglia Doria si palesa pienamente. La “Congiura del Fiesco” infatti viene ripresa in diversi capitoli, come ad esempio nel passaggio in cui riprende il personaggio del “Moro” della tragedia, indicandolo come incarnazione del nemico, del traditore, del perdente, dell’utile idiota, del fallito. Sarà la storia, secondo Hitler, a decretarne l’oblio con le lapidarie parole, usate da Schiller nella quarta scena del terzo atto della “Congiura del Fiesco a Genova”: «Il Moro ha fatto la sua opera, il Moro può andarsene» (intesa come: può essere bandito, preso a calci). Per Hitler questa frase lapidaria contiene un doppio significato: un monito (guai a fallire) e un insegnamento (punire i traditori) nello stesso tempo.
Il fato volle che, proprio come era accaduto ad Andrea Doria, anche Hitler stesso si trovasse nella condizione di vittima della congiura volta, attraverso un colpo di stato, a sovvertire il regime del dittatore. Il 2 luglio 1944, infatti, il Fuhrer fu oggetto di un maldestro attentato fallito miseramente in quanto Hitler riportò solo ferite più o meno gravi.
E come a Genova nel 1547, la vendetta del sopravvissuto fu atroce e chissà se non addirittura ispirata a quella del suo mentore: tra congiurati e familiari degli stessi vennero arrestate e sommariamente processate circa cinquemila persone; alcune furono internate nei lager, altre giustiziate nei mesi successivi e almeno duecento barbaramente “passate alle mani dal boia”; i condannati vennero impiccati con corde di pianoforte ed i loro corpi appesi poi a ganci da macellaio.
Con la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1948, il quadro fu restituito all’Italia ed conservato a Firenze a Palazzo Vecchio. Nel 1985 la tela venne presa in custodia dal Museo Di Capodimonte a Napoli ma solo nel 1988 Giovanni Carlo Doria, il suo cavallo ed il cane poterono finalmente tornare a casa, a Genova, dove tuttora fa bella mostra di sé nella Galleria Palazzo Spinola.